Quarantaquattro miglia (circa 70 chilometri) dividono Blackpool da Burnley. Due città vicine, ma non amiche. Sono “towns” malinconiche. La prima, Blackpool, si affaccia sul mare e ha l’umore delle cartoline sbiadite o delle sale bingo mezze vuote. Burnley è quasi un satellite di Manchester e anche lì non c’è un granché da fare. A parte lavorare, bere duro e “andare al football” al sabato pomeriggio – perché la Championship, di norma, scende ancora in campo, quasi per intero, di sabato pomeriggio, come da antica tradizione. Ebbene, nove giorni fa, dopo uno di quegli 0-0 da moderno Davide contro Golia (il Burnley, primo in classifica, domina territorialmente ma non riesce a oltrepassare le barricate del Blackpool penultimo), ci scappa il morto. In rete gira subito un video. A Blackpool sembra andata in scena la solita rozza rissa che talvolta prende fuoco non più nello stadio, o dietro lo stadio, ma attorno a un pub, come già “The football factory”mostrava, prima su pagina (il romanzo-verità di John King del 1997, da noi pubblicato da Guanda, fu uno spartiacque), poi su pellicola (il film del 2004 non solo non fece rimpiangere il testo di King, ma consacrò Danny Dyer come attore con la faccia giusta per rappresentare il volto scazzato della working-class diseredata). Solo che stavolta, appunto, c’è un morto di mezzo.
“Non sembrava un pugno così forte”, commentano sui forum calcistici, ma tant’è. Tony Johnson, 55 anni, è stato colpito duro con un pugno alla testa fuori dal pub The Manchester e ci ha lasciato le penne. Rispunta – perché da noi, ciclicamente, “rispunta” – la parola “hooligan”, mentre da Oltremanica i più attenti ci ripetono che questa violenza molto “made in Britain”, che come sfondo ha quasi sempre un rabbioso mix di alcol e strisce, non se n’è mai andata. Di decennio in decennio trasloca un po’, al massimo. Negli anni ’70 e ’80 ha divampato sugli spalti o nelle immediate vicinanze dei football grounds, poi si è spostata nei quartieri adiacenti allo stadio, nelle zone meno pattugliate dalle telecamere a circuito chiuso (ce ne sono sempre meno), perché dal 1990, a partire da quell’ormai preistorico Taylor Report, si è fatto di tutto per trasformare progressivamente gli stadi inglesi in scintillanti teatri inaccessibili al tifoso medio. E oggi? Questo tipo di violenza, dall’aspetto primordiale ma talvolta tutt’altro che improvvisata, prende forma ovunque si inneschi la scintilla. Quasi sempre, però, lontano dalle spaziali arene all-seated dove 22 uomini dovrebbero sportivamente darsele saziando la sete di botte di chi aspetta il sabato per darsele sul serio.
Dopo la recente morte di Johnson è stato, di nuovo, un interrogarsi sulle ragioni di questi inestirpabili sbuffi di – solo in parte imprevedibile – violenza. “Ci sono tifosi e tifosi, aree e aree”, si è detto. “I tifosi del Burnley non hanno una bella fama”, qualcuno ha osservato, ironico. È che oggi, in Gran Bretagna, ci sono luoghi che, ignari di qualsiasi dato o statistica li sorvoli, si presentano già male in partenza. I parcheggi poco illuminati dietro le stazioni dei treni, i taxi ranks (le ampie aree dove sostano i taxi e dopo le 10 di sera, nel weekend, approdano frotte di sfasciati e sciroccati). I fast-food, specie quelli nei centri (non) storici di molte città dormitorio inglese. E poi alcuni pub che – proprio come da noi alcuni bar – sono noti ritrovi di tifosi. Noti perché lo sanno tutti, anche le tifoserie nemiche. Che di tanto in tanto pianificano un raid. In un dibattito che ormai si rinnova puntuale di epoca in epoca, attraversando nuove mode, nuovi governi e nuove sensibilità, alcuni fanno notare che Johnson non era finito “per caso” in mezzo a una ventina di tizi pronti a menar fendenti. Fanno notare che era un “regular” all’Armfield Club di Blackpool, non certo un circolo per collezionisti di farfalle rare. A un certo punto, nella discussione – a più voci e su più canali – si inserisce anche Ellis Platten, volto giovane, pulito e narciso del calcio raccontato attraverso YouTube. La fa spiccia Platten su Twitter: “Se vai a una partita di calcio per batterti contro qualcuno, non sei un tifoso. È molto semplice”. Su un forum del Manchester City gli rispondono secco: “Sono d’accordo, Ellis, ma se vai allo stadio per filmare te stesso per la durata di tutta la fottuta partita, non sei ugualmente un tifoso. È molto semplice, verginella”. In questo “verginella” c’è molto. In Gran Bretagna si mastica, vive e consuma una quantità industriale di football. La passione raggiunge luoghi inimmaginabili per noi italiani. È una passione perlopiù sana a cui è però sottesa un’adamantina verità della moderna cultura britannica (le radici risalgono, almeno, ai tempi di Dickens): nel weekend ci si sfoga. Finché, durante la settimana, si lavorerà (tanto) all’interno di una società competitiva (tanto) in cui trovare qualcosa da fare, a parte tracannare pinte e football, non è sempre facile, ci si sfogherà anche sporcandosi le mani di fango, polvere e sangue. È molto semplice. L’hanno definita la “malattia inglese”, no?
Una malattia che, dopo i racconti dei vari John King e Cass Pennant, potremo capire meglio grazie a “Hooligan. L’ultima parola”, l’ultimo libro di Carlton Leach, in uscita domani per i tipi di Altaforte Edizioni. Leach è stato uno dei simboli della celebre Inter City Firm, il gruppo di tifosi più hardcore del West Ham. “Un romanzo – promette Altaforte – pronto a portarvi nelle viscere di chi ha rischiato in ogni frangente della sua esistenza, un romanzo dove non esistono sconti di pena”. È così. Perché se è vero che un Cass Pennant (altro boss della ICF), oggi, è un signore più incline ai barbecue che alle scazzottate (il merchandising del suo brand, “Old school FC”, è piuttosto sobrio e basic), il libro di Leach, 63 anni, può essere una lettura rivelatoria. Sia chiaro, Leach non è un tifoso qualunque. Lo hanno definito “gangster”, “malavitoso”, “criminale” perché, dai tempi in cui era un semplice buttafuori dell’East London, si è fatto coinvolgere da tutto ciò che gli potesse garantire una vita adrenalinica, sempre al limite. Dannatamente pericolosa. Coinvolto (ma non condannato) nel celebre triplice omicidio di tre spacciatori di droga a Rettendon – i Rettendon Murders –, Leach ha ispirato “Rise of the footsoldier”, film del 2007 che ha portato sul grande schermo quelle vicende intricate e insanguinate (pare che gli omicidi fossero collegati alla morte della diciottenne Leah Betts, deceduta dopo aver assunto una tavoletta di Ecstasy). Oggi, raggiunta l’età giusta per passioni più domestiche, Leach offre questo “Hooligan. L’ultima parola”, che è una riflessione matura sulla sua esistenza da brividi. Dentro non c’è solo il football, ma di football ce n’è parecchio. C’è Londra, il quartiere, la fedeltà ai lads, l’integrità della “vecchia scuola”, gli amici, l’onore e la famiglia. C’è anche una narrazione, salda e dettagliata, che potrebbe spiegare, meglio di qualsiasi dossier, cosa sia successo lo scorso 4 marzo, fuori da quel pub di Blackpool, verso le 7 di sera.