L'ultimo libro di Massimo Fini è per finiani di stretta osservanza (cosa, fra parentesi, che chi scrive, nonostante le apparenze, non è). In questa opera autobiografica, la terza nell'arco di quindici anni dopo "Ragazzo" e "Una vita", "l’anarcoide mezzo pazzo" (Giorgio Bocca) non ha voluto testimoniare esperienze collettive, con un valore universale, ma solo ed esclusivamente la storia di un individuo, unico come lo sono tutti, lui, Massimo, che perde "lentamente, gradualmente, inesorabilmente la vista". Se i due precedenti potevano illuminare le vicende dell'Italia degli ultimi sessant'anni e anche, sì, far meglio comprendere l'opera del giornalista e del pensatore Fini, "Cieco" fa vedere - si perdoni il cinismo del verbo - la costante, sottile e onnipresente disperazione che ha accompagnato il Fini uomo. Disperazione nel senso etimologico, di assenza di speranza - e anche, qua e là, nel senso comune, l'angoscia che non ti molla neanche nei rapinosi attimi di felicità. La mancanza di vista, prima la miopia, poi il glaucoma, lo hanno tormentato in pratica da sempre. Un affezionato nemico interno, si direbbe, un ospite inquietante che, insegna mastro Nietzsche, come ogni malattia produce anche effetti benefici. Nel suo caso, una tendenza all'introspezione psicologica, attentissima ai minimi movimenti altrui, sia interiori che, a breve distanza, anche esteriori; una sensibilità acutissima per il dettaglio, dono questo assai utile per centrare persone, luoghi e accadimenti grazie ai lampi dell'intuizione; una razionalità ipersviluppata e in continuo rovello, a compensare i deficit di presenza fisica che recano con sé occhi feriti. In queste pagine, in parole povere, si coglie per sensazioni, seguendo i ricordi in ordine sparso, la sofferenza senza tregua che nessuno, neanche le persone a lui più vicine ha mai veramente compreso. Intimista al massimo grado, questa cronaca della cecità ci restituisce un Massimo denudato completamente, con le difese totalmente abbassate, fragile e orgoglioso, profondo e infantile, bizzoso e commovente, scostante e meditabondo.
E' come guardare il suo io da dentro, riflesso in uno specchio di sincero, sfacciato, e perciò non irritante, e non odioso (o almeno non troppo), narcisismo. Antonio Padellaro, recensendolo, ha scritto che l'ultimo libro di Fini è in sostanza l'ennesimo inno al suo ego, anche se fitto di gustosissimi aneddoti e reso amabile da certi momenti lirici, che sanno di solitarie sigarette, fumate sugli scogli davanti al mare. È così. Ma la miscela di egotismo (attenzione: non egoismo), di mitezza e spavalderia che fanno del mio amico Massimo una persona ricca di contraddizioni e umanamente interessante, oltre che la mente brillante che tutti conosciamo, a me ispirano un sentimento che potrebbe sembrare fuori posto: tenerezza. Era il 2007, l'anno in cui la mia città, Vicenza, viveva un raro momento di risveglio dall'abituale democristiana sonnolenza, grazie alla lotta contro la seconda base militare Usa che ci ha privati dell'aeroporto civile, per quanto piccolo fosse, nonché di una vasta area libera. Massimo lo invitai assieme a Giulietto Chiesa per un dibattito sull'ennesimo abuso di sovranità perpetrato sulle nostre teste per far piacere al Pentagono. Lo conoscevo già da un anno, ma non bene. Sapevo dei suoi problemi di vista, non ne avevo però afferrato la gravità. Dopo il convegno, affollatissimo, in cui i due mattatori avevano dato una bella pettinata alle sciocchezze dei lacchè Usa, ci dirigevamo con altri organizzatori verso l'auto, per andare a casa di un collega, che gentilmente l'aveva messa a disposizione per la cena. Sul marciapiede, Massimo mi camminava davanti. Nella mano destra teneva una bottiglia di vino che gli avevano regalato, con un'etichetta per propagandare il No Dal Molin, rigenerante ventata di antiamericanismo logicamente votata alla sconfitta. A un certo momento, sento un "crash": non aveva percepito la presenza di un palo della luce alla sua destra, e ci aveva fracassato sopra la boccia di rosso, finitogli per metà sui pantaloni e le scarpe. Proseguì come se nulla fosse. E io non osai proferir verbo.