Qui nel West End londinese, a Soho, forse nel quartiere più incredibile di Camden, sembra di essere tornati negli anni ‘80. Non per le decorazioni natalizie (non so perché, ma le decorazioni natalizie delle metropoli sono anni Ottanta, smentitemi se potete), o le comparse dei teatri (eh sì, non solo comparse) che mangiano street food in costume confondendosi con le “model”, o quell’eleganza londinese che poi (insieme alla musica) formavano l’estetica assai britannica (anche se con il giro largo, passando in parte dall’America) di quel decennio dal quale non usciremo mai. No, ci sono proprio frotte di quindicenni e trentenni e cinquantenni con i 501, le Vans, le camicie di felpa a scacchi su magliette dei Metallica e giubbotti di velluto a coste mentre nell’aria, tra l’immancabile e patriottica “Last Christmas” che ha “whamageddonizzato” persino chi negli ‘80 era adolescente, aveva la stessa età dei protagonisti di Stranger Things, e che siamo whamgeddonizzati nel cervello e nell’anima, proprio, arriva all’improvviso anche lei: “Running Up That Hill” e ad alcuni di noi spuntano i lacrimoni (dal freddo) ma lacrimoni grossi così eh, non perché è del 1985, non perché è di Kate Bush, non perché l’ascoltavamo nel walkman o nel “gelosino”, ma perché Stranger Things l’ha presa e risuscitata come riesce a risuscitare ogni volta anche noi che credevamo per sempre perduto lo stupore e l’emozione di quegli anni e che invece è ancora qui, intatta (mi cola il naso, scusate).
Sì, perché Stranger Things è arrivato in teatro e all’inizio ti sembra una cosa ben strana poi arrivi qui, tra le insegne dei teatri del quartiere dei teatri del mondo (“Broadway suck”) e la cosa ti sembra normale, ovvia, conseguenziale. Dove dovrebbe finire la più grande narrazione contemporanea, la vera mitologia del nostro secolo, la fantarcheologia della nostra anima se non a teatro, se non a Londra, se non nel West End, se non a Soho, se non a Charing Cross Road? Eh no, non è un musical “tratto da”, o una sintesi per fan pazzi (non siamo “fan”: noi “siamo” quella faccenda lì, noi siamo quelle biciclette e quel confine tra le città e la campagna dove iniziavano le storie e le avventure sempre un po’ Stephen King, sempre un po’ film dell’orrore al venerdì pomeriggio – i “Non aprite quella porta” o quel Sottosopra, i “Venerdì 13” con tutti i Vecna di questo nostro immaginario sterminato come non lo avranno mai più), no, è un capitolo a se stante, un prequel, uno spin-off, inserito nella trama della serie e già siamo in tanti, pronti ad abbattere a colpi di fionda (ce l’abbiamo tutti, la fionda, fatta con la camera d’aria delle biciclette, che vi pare) l’edificio di Netflix (ce l’ha un edificio, Netflix?) se non la passeranno in streaming, questa messa in scena e vai a trovare il regista – non dello spettacolo, ora ci arriviamo – ma della sua messa in onda, perché noi vogliamo il meglio e il perfetto e l’assoluto e “Stranger Things – The First Shadow” ce lo da, ce l’ha dato e ce lo darà, come “E.T.” che non abbiamo mai smesso di guardare.
Ci sono tutti, dietro questa produzione, ci sono ovviamente i Duffer Brother, c’è Netflix che si è associato in tutto e per tutto a Sonia Friedman, più che una produttrice teatrale una sorta di divinità da queste parti (i suoi spettacoli hanno vinto decine e decine di Laurence Olivier Award e Tony Award (un’ottantina in tutto) e che è riuscita a mettere in scena Harry Potter (e la maledizione dell’erede) per dire. Il regista (vincitore ache lui dell’Olivier) ha diretto per il cinema “Billy Elliot” e “The Hours” (sto iniziando a sentirmi sempre più britannico sarà perché sono siciliano e nelle isole mi ci trovo bene o perché qui sanno che Stranger Things e William Shakespeare sono fatti della stessa sostanza). Io non voglio, io non posso dirvi niente. Questa faccenda è una cosa di anima, non di locandina. E però i giovani attori protagonisti sono già nell’empireo delle star: Isabella Pappas (Joyce Byers nata… chi non sa il cognome da nubile fuori dall’aula), Oscar Llyod (Jim Hopper), Christpher Buckley (Bob Newby), la new entry Ella Karuna Williams che interpreta Patty Newby, sorella adottata di Bob e numero 1, Henry Creel, Vecna, interpretato da Louis McCartney. E il Phoenix Theater, non piccolo per gli standard londinesi, minuscolo per una produzione del genere, messo in mano a illusionisti e tecnici dei grandi spettacoli di magia di Las Vegas. Perché non mancano gli effetti speciali. Volete un esempio? Non posso darvelo. Non c’ero. Questo era un reportage dall’anima non da Londra. Ero adolescente negli anni ‘80. A quelli come noi bastano un mappamondo. E i poster.