Più che un “viaggio al termine della notte” – quello descritto nel racconto di Alain Elkann pubblicato ieri su “la Repubblica” – è stato un viaggio al termine di noi stessi. La definitiva conferma che il vero pericolo non sono i lanzichenecchi in sé ma i lanzichenecchi in noi. I pennivendoli da elzeviro dell’effimero quotidiano non aspettavano altro che sguainare le spade dalle prime pagine dei loro giornali contro gli Elkann “invasor” dell’editoria: hanno frugato tra ogni ruga di lino del vestito Elkann cercando errori nella sua eleganza. Nessun errore.
Il racconto di Alain Elkann è perfetto così: troppo facile abbaiare allo scandalo, cercare nel suo racconto parole di razzismo, di snobismo, di superiorità.
Anzi, Elkann in punta di penna ci ha ricordato che esiste un problema: oggi i Franti sono usciti dal libro “Cuore” per invadere i treni delle nostre coscienze.
Al posto che cercare un punto di “crep de chine” nel vestito di Elkann ricordiamoci di Occam analizzando la struttura essenziale del testo narrativo:
- il piacere;
- il viaggio itinerante a lunga percorrenza; la scoperta dei luoghi non conosciuti;
- la solitudine peggiore (siamo soli in tanti);
- la nostalgia della madeleine del tempo perduto;
- la morte così lontana dai pensieri ma così vicina da esserci di fronte, incarnata in una gioventù che non è neanche più bruciata ma semplicemente “non pervenuta”.
Se non fosse che questa è la prima generazione che impone una linea ferroviaria di pensiero anche non muovendosi: perché anche se il treno è in un tunnel quello che conta è la condivisione social sempre in movimento perpetuo.
I ragazzi viaggiano oramai solo in una instagrammatica della vita che diventa la loro vita stessa.
Se i lanzichenecchi sguainavano le lame delle loro Katzbalger, i lanzichenecchi di oggi ci accecano con dialoghi surreali, da rapper che non hanno mai visto una periferia e che infatti viaggiano in prima classe, confondono il chiasso con il dialogo, la dittatura dei loghi e dei catenoni dorati con la propria personalità.
Questa è l’unica domanda che ci saremmo dovuti porre davanti al racconto interrogativo di Elkann: perché i nostri figli, nipoti, fratelli, si sono ridotti così?
Basta guardarci intorno, non occorre prendere un treno, per comprendere che abbiamo accecato i nostri figli avvolgendoli in un bozzolo di solitudine folle: li abbiamo resi schiavi e complici di una dittatura del vuoto che li ha trasformati in turisti della vita. E la colpa è soltanto nostra: siamo cresciuti da “bravi” manzoniani e abbiamo generato dei lanzichenecchi Usa&getta.