“Dici a me? No dico, stai dicendo a me?”, “No è che sei…buffo”, “Se vinci, vinci. E se perdi, vinci. Il rischio è sempre così”. E vabbè, potremmo andare avanti per ore a citare le frasi dei film di Martin Scorsese che oggi compie 80 anni - a proposito, tanti auguri Martin - ma bisogna parlare di cinema. Per il regista di New York (qualcuno ricorderà con orgoglio le sue origini palermitane) i numeri sono (già da tempo) quelli di un dio, un totale di 25 film come regista, 15 da sceneggiatore, 29 da produttore, 19 documentari, 3 serie tv, più uno sfracello di premi e onorificenze, fra cui tre premi Bafta, un Oscar (miglior regista per The Departed), quattro Golden Globe e 2 premi al Festival di Venezia, 1 premio al Festival di Cannes, 2 premi David di Donatello e un premio César.
Che poi parlando di Scorsese e del suo cinema vuol dire parlare di Champions League: è arrivato ovunque. Miseria e nobiltà, Italia e America, gangster e imprenditori, pugili e piloti d’aereo. Il Dalai Lama e Gesù Cristo. Scorsese è uno di quegli autori che hanno vissuto la storia del cinema per come lo conosciamo, prima leggendo il cinema degli anni Cinquanta e poi scrivendo pagine importanti della Nuova Hollywood al fianco di Francis Ford Coppola, Steven Spielberg, Roman Polanski, Paul Schrader, fino ad arrivare alle innovazioni di oggi. Per questa voce vedere Netflix, dove Scorsese ci è finito direttamente per la regia della sua unica produzione per l’azienda di streaming americana, The Irishman. Film che ha fatto la storia non tanto per la sceneggiatura, quanto per il ritorno sulla scena di Robert De Niro e Al Pacino sullo stesso set. Senza poi tralasciare il quid tecnologico, con effetti speciali di ringiovanimento degli attori che, a quanto pare, nel 2019 quando uscì il film, colpirono molto la critica e pubblico.
Ma Scorsese non è un tipo da effetti speciali. O meglio, non è quello che ci interessa dei suoi film. In ottant’anni di carriera, a segnare il suo magic touch sono state le pelli ruvide, le pistole, le psicologie dei personaggi di un’America - di soprattutto una New York - alle prese con il post Vietnam, con le difficoltà dell’inclusione, con il brivido della legalizzazione delle armi da fuoco. Con il mondo che ha visto a Little Italy e che si traduce in una saga di antieroi. Il regista di grandi storie di uomini (sì, soprattutto di uomini), assistito da Thelma Schoonmaker, che si fidano di se stessi per uscire da una realtà insostenibile. Una continua lotta. Una continua lotta violenta.
Non si è lasciato nemmeno trafiggere più di tanto dal marketing, dall’era dei blockbuster - a cui pure ha partecipato - rimanendo legato nell’immaginario dei gangster movie. Un autore canonizzato: ma statico su quella linea? No. Sì è vero, si è preso il suo immaginario gangster e quello delle pistole, ma nemmeno troppo. La produzione eterogenea - gangster movie e film sulla religione, biografie e drama - gli hanno permesso di sintonizzarsi su un gran abbraccio di ogni tipo di pubblico: per i nostri genitori era il regista di tendenza (magari troppo pop, magari tutti non lo capivano), per noi Millennials era quello dei film con gli attori fighi. Per questo, sommariamente, piace ed è piaciuto un po’ a tutti - ma non per questo non ha diviso. Eppure i suoi non sono proprio i tipi di film che scegli di guardare la domenica o in compagnia del/la partner. Il sangue, la violenza, l’accento forte sulle scene più cruente. Non per tutti quindi, eppure universale. Tanti auguri.