E ci mancava Tedua: sentivamo la mancanza del suo “Free Shiva”. Anche lui come gli altri viene dalla strada. Magari i Tribunali dovrebbero aprire delle sezioni apposite per chi “viene dalla strada”. Poi ci sono quelli che vengono dalla “terra” come i siciliani di Corleone, oppure i disagiati che provengono da famiglie complesse e da periferie violente romane e che si salvano, guarda caso, grazie alla scrittura delle canzoni (anche se poi alla fine non le scrivono manco più loro. E a tutto ciò si aggiungono in netta contrapposizione i napoletani come Geolier: loro sì doppiamente disagiati, in primo luogo per le zone di provenienza davvero criminali ma soprattutto perché da Roma in giù è tutta una periferia. Una periferia che si chiama Sud in cui se sbagli paghi e paghi per tutta la vita, una periferia in cui per arrivare devi lavorare sodo e perdere le unghie dalle dita per quanto devi graffiare. Ma a Milano, la Gotham City italiana, si proclama la libertà per Shiva mente volano elicotteri in cielo con catene e S giganti (nemmeno a New York è consentito volare in città così a bassa quota) e da oggi, dopo la condanna appena annunciata del personaggio Tv Baby Gang e del sodale Simba La Rue, rispettivamente a 5 e 6 anni di reclusione, magari il sindaco Beppe Sala proietterà nel cielo il farò con le loro ombre e il leitmotiv degli eventi sarà un “Free” moltiplicato per tre: Shiva-Baby-Simba.
Qualche tempo fa un giornalista/opinionista di cui non posso fare il nome, per ragioni personali, con molto vanto mi parlava di una sua partecipazione ad una intervista presso la comunità di don Claudio (persona rispettabilissima e uomo degno di essere chiamato tale per quello che fa per i ragazzi) accentuando proprio la conoscenza di Baby Gang come se per lui potesse diventare uno strumento di hype personale per le proprie attività. Bene, magari oggi occorrerebbe riflettere sul fatto che l’essere famosi e sparare alle persone non ti rende così differente dai ragazzi costretti a delinquere per il disagio culturale e sociale in Sicilia, in Campania o in altre aree del Sud Italia: Milano non è una Repubblica a sé e non tutto può essere ricondotto a “moda” “hype” e “coolness”. Mi fa impazzire la visione ironica della Gialappa’s nella rubrica Amici al Bar in cui quella simbologia rispecchia esattamente il concetto di vita e di relazioni che vegeta in città tra coloro che si ritengono, sbagliando di grosso, tenutari della cultura, in particolare musicale e televisiva. E questa nuova tendenza nell’affermare che la musica è la salvezza per i disagiati in questo momento più che rappresentare un aspetto sociologico importante mi da l’idea di essere diventato un claim di una forte operazione di marketing. Certo non si può disconoscere alla musica, ma più in genere alle arti, una funzione di utilità sociale, di redenzione, di salvezza. Ma siamo sicuri che adesso questo continuo dichiararsi “ex disagiati salvati dalla musica” non sia diventato una studiata e proficua operazione per fare soldi? Anche perché alcuni artisti la ripetono a loop dal 2018 unitamente al proclama “sto facendo musica nuova che rivoluzionerà la storia”. Chi nella musica oggi afferma di non essere un prodotto di marketing mente! A meno che non si chiami Lucio Corsi, giusto per fare un nome di un artista che può affermare di essere realmente distaccato da attività che non siano prevalentemente costruite a tavolino. Nella musica indie e di alto cantautorato (in stile Carmen Consoli tanto per intenderci) è palese che il marketing quoti quasi zero. Io stesso ho collaborato alla costruzione di progetti di “marketing artistico” nella musica. Ma a parte questo basterebbe leggere un contratto discografico per comprendere l’incidenza della voce marketing, affiancata al Recording, all’interno del budget contrattualizzato con l’artista. Ma poi la puttanata delle puttanate è non definirsi da parte di alcuni artisti un prodotto di marketing quando il grosso del proprio volume di affari non viene dal lavoro di cantante ma da quello di placement, sponsorship e brand ambassador. Se non è marketing questo allora di cosa parliamo?
Se sei influencer, modello di sfilate, attore di pubblicità, insomma se quella è la tua attività prevalente allora non si tratta di marketing ma di ordinario lavoro. Ma se sei un cantante quelle attività sono funzionali alla tua attività principale e ti servono per darti visibilità facendoti streammare di più. Non credo che alcuni artisti avrebbero problemi ad ammettere che svolgono attività di marketing e che oggi il marketing serve ed è funzionale al personaggio. E la comunicazione cos'è? La maggior parte degli artisti paga società di comunicazione (parola che in azienda dai miei tempi è sempre associata a marketing) per avere pagine di giornali, telegiornali e ospitate che diversamente “motu proprio” non credo arriverebbero così copiose. Quando un giornalista è davvero interessato ad un personaggio si mette in un aereo e vola, che ne so, per esempio a Londra ad intervistare Mick Jagger senza aver ricevuto “l’imput” da una società di comunicazione media. La stessa comunicazione social molto spesso è curata da persone qualificate a farlo che strutturano il post, la storia, sempre con l’ottica ad una operazione che è marketing. Devo sempre rimandare al passato e ai grandi nomi della tv e della carta stampata per ricordare che fino alla fine degli anni '90 i cantanti e i cantautori italiani avevano ben poco a che fare con il marketing. Certo qualcuno ricorderà Nicola Arigliano nei Caroselli, oppure il grande chitarrista jazz Franco Cerri, l’uomo in ammollo, sempre nel Carosello: ma il Carosello era un'altra roba. Una via di mezzo tra il mondo del cortometraggio e la pubblicità. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, come chi è esente dall’essere un prodotto di marketing nella musica. Io la prima pietra non la posso scagliare perché ho molto peccato e come tutti quelli che adesso si trovano al cospetto di Dio mi confesso e mi pento.