S'è addormentato l'orso. La terza stagione di 'The Bear', osannatissima serie Hulu, è approdata su Disney + alla vigilia di Ferragosto e ha la stessa precisa consistenza di una peperonata in spiaggia a mezzogiorno. Inoltre, smarona. E lo fa perché, con ogni evidenza, si è ritrovata con ben poco da dire ancora. Purtroppo. Purtroppo perché gli attori sono, al solito, bravissimi, fotografia e regia eccelse, ogni minimo dettaglio è studiato con la medesima maniacale cura che chef Carmy (l'immenso Jeremy White) riserva ai propri manicaretti gourmet. A mancare, però, è la trama. Un problema mica da niente, a occhio e croce. I dieci episodi, da un'oretta ciascuno, si strasciano avanti annacquatissimi, senza sale. Una sequela di flashback e immagini evocative (gli special guest della scorsa stagione, tra cui Will Poluter e la Premio Oscar Olivia Colman, non avevano tempo per le registrazioni? Chissà) che portano a un pasto mesto assai. Eccezion fatta per qualche scena intensa - le solite litigate passivo-aggressive tra i fornelli, la puntata del parto - l'unico messaggio che la serie lascia è sempre lo stesso: nessuno sano di mente, o che tiene alla propria salute mentale, dovrebbe lavorare in una cucina. Per il resto, gran torpore farcito da una patina intellettualoide prolissa e stantia. Ossia ciò che in genere viene smarmellato a strafottere sulle sceneggiature che si ritrovano a essere, d'improvviso, senza più argomenti.
Il 'New Yorker' è stato forse il primo a stroncare questo terzo capitolo definendolo "overcooked", ossia grossomodo "scotto", "bollito". Noi che di certo non siamo intellettuali per benino, vi diciamo quello che è: una palla al cazz0. Spiace perché abbiamo amato le due precedenti stagioni, ci siamo sperticati in grandi, meritatissimi complimenti. A maggior ragione, la delusione brucia. Il racconto ha come arido cuore pulsante il ristorante, 'The Bear'. Sì, di nuovo e come è giusto che sia. Solo, ripropone dinamiche che abbiamo già visto, digerito, metabolizzato: gli scazzi in cucina, la frenesia schizoide di chi ci lavora e pretende, da se stesso come da tutti gli altri, che ogni portata sia ben oltre la perfezione, l'"every second counts". Incomprensibile la ragion per cui questa serie sia (ancora!) catalogata come 'comedy' quando i temi principali sono e restano la morte, il suicidio, l'elaborazione del lutto, il burnout lavorativo, l'alienazione pressoché totale di chi scambia un mestiere per la propria stessa vita, rapporti famigliari disfunzionali, la quasi totale impossibilità di comunicazione tra persone che si vedono ogni giorno, sette su sette, dalle 8 del mattino a mezzanotte. Daje a ride, "Sì, chef!".
Il fatto qui è che anche il 'drama' s'è assopito. Il protagonista Carmy è sempre il solito orso, focalizzato al 1000 % sul lavoro, incapace di esternare emozioni pure se gli fremono dentro come vulcani in eruzione. Grazie, ma lo sapevamo già. La narrazione cerca di tirare avanti con flashback sulla vita di altri personaggi che ruotano nella sua cucina e, grossa sorpresa, stanno lì perché non sono riusciti a trovare altro impiego. Troppo vecchi, oppure con insufficiente esperienza seppur animati dal sacro fuoco della passione per i fornelli. Finiscono per ritrovarsi tutti, emarginati per un motivo o per l'altro, in questo incubo di locale sull'orlo del fallimento che, però, aspira alla conquista di una stella Michelin. Grazie, ma anche questo lo sapevamo già.
Esilarante, quello sì, il momento in cui Richie (l'attore Ebon Moss-Bachrach) domanda a una collega che lavora altrove se ci sia un 'segreto' per riuscire a dare sempre il 100 % in cucina, per sostenere quei ritmi lavorativi logoranti, da TSO coatto. Lei risponde qualche cosa che non ha nulla a che fare con la sostanza stupefacente tanto simile alla neve. E, per cliché oppure per davvero, si ride della grossa. A parte questo piccolo, infinitesimale dettaglio, c'è da dire che chi ha scritto la sceneggiatura si è fatto raccontare per bene la routine di una brigata tra fornelli e sala. In pratica, è l'inferno in terra. Se, guardando le puntate, potrà sembrarvi un'esagerazione narrativa, teniamo a dirvi che no: in questo mestiere, dai e dai, pure la reincarnazione di Ghandi potrebbe ritrovarsi a mettere le mani al collo a qualcuno per un ravanello non perfettamente tagliato alla julienne. Per stare in cucina, a quel livello, tutte quelle ore, ogni giorno, bisogna avere il mindset di un serial killer. Nessuna emozione né empatia, gli altri sono macchine e devono essere efficienti sempre, l'unica risposta che sono autorizzati a dare è un "Sì, chef!" di massa, in coro e guai a chi non lo grida abbastanza forte. La leva militare, però fine pena mai.
Carmy arriva a pensare, e a dire, che ogni cosa non riguardi la cucina sia "una perdita di tempo" e, in alcune scene, si mostra lui per primo spaventato da se stesso: man mano che il ristorante accresce la propria allure, il nostro protagonista si ritrova sempre più simile allo chef stronzo che gli ha 'insegnato' il mestiere a scoppole e insulti, traumatizzandolo per la vita. In effetti, oramai è proprio così, pari pari. Anche se tiene gli occhioni da Bambi. Possiamo parlare di colpo di scena? No. Se l'obiettivo è la perfezione assoluta, va da sé che nella vita non ci possa essere spazio per altro. Anzi, che non ci possa essere una vita all'infuori di quei quattro fuochi.
Ci ineperchiamo in un paragone semplice semplice: chiunque gareggi alle Olimpiadi sta lì perché s'allena nove ore al giorno, ogni giorno, fin dalla più tenera età. Niente pause, no sgarri, amici e serate sono per i deboli, i comuni mortali. Vista così, perché è così, nonostante la stantia retorica di quelli che ben scrivono, immaginate l'immenso piacere di arrivare quarti, ottavi, ultimissimi. Chef Carmy vuole una stella Michelin, si sbatte per questo ogni fottutissimo giorno e dei sentimenti di chi lo circonda gli interessa un tapinambur marcito. C'è chi, tra i colleghi, prova a farlo 'ragionare'. Ma lui, pur essendo un filo inquietato da se stesso, 'ragiona' già benissimo, invece. Non è buono né cattivo. È semplicemente funzionale. Alla favoletta tale per cui faccia tutto questo in memoria del fratello che s'è tolto la vita quel dì son rimasti a credere soltanto gli sceneggiatori. E forse nemmeno troppo. Dell'esistenza di una vita all'infuori dei fornelli, gli parla giusto una chef stellata che va in pensione. La sta a sentire qualche secondo perché la stima, ma comprenderla non può.
I drammi esistenziali del piccolo dolce chef Carmy sono, alla fin della fiera, sempre gli stessi. In questa terza stagione non si muove nulla, è un monolite che vi guarda fissi, sfidandovi a trovarci dentro qualche forma esuberante. Solo, non c'è. E se non c'è non è perché non siete abbastanza profondi o intelligenti. Semplicemente, questo capitolo della storia non ha una storia e frigge ad aria cose già viste, trite e ritrite, con il solo ausilio di una ottima fotografia. Un po' come scorrere le foto dei piatti #foodporn su Instagram. Bellissimi, però non si mangia niente. Lo spessore concreto e intensissimo di 'The Bear' è andato a farsi benedire altrove e, per quanto l'ultimo episodio si concluda con un ferale 'To Be Continued', il sospetto è che, fan o meno, si possa serenamente passare alla prossima stagione, bypassando questa qui. Emerge chiaro pure dalle recensioni più incensanti (ovverosia, almeno qui in Italia, per il momento tutte): parlano di grandi riflessioni, evocazioni, di intensità e analisi dei personaggi sopraffine, lunghi silenzi contemplativi. Tradotto, appunto, una palla al caz*o.