Sempre più film e serie tv prendono vita dai videogiochi. Un esempio è The Last of Us, la serie disponibile su Sky ispirata all'omonimo videogame che sa toccare le corde più profonde delle emozioni, coinvolgendo attivamente chi guarda e chi gioca. E poi c’è stato anche Minecraft, un film che nasce dal celebre videogioco con cui molti di noi sono cresciuti. Ma come funziona questo mondo interattivo? Qual è il segreto per trasformare una storia emozionante (e bellissima, come quella di Last Day of June) in un’esperienza davvero coinvolgente? E, soprattutto, The Last of Us: è meglio la serie o il videogioco? Abbiamo chiesto tutto a Massimo Guarini, game designer e autore in giuria ai Bafta. Con una carriera che lo ha visto lavorare con nomi come J.J. Abrams, Steven Wilson e Goichi Suda, Guarini ci parla di come i videogiochi possono cambiare il nostro modo di raccontare il presente. Di vivere per immagini. Di come a volte sia possibile ripensare ai sentimenti che abbiamo provato nella nostra vita semplicemente attraverso un videogame.

Massimo Guarini, uno dei tuoi ultimi progetti è Last Day of June. Un videogioco che sfiora la filosofia, costruito attorno all’effetto farfalla e al tema del rimpianto. Leggendo la trama, sembra quasi la sinossi di un film o di un romanzo. Cosa significa per te raccontare una storia e, allo stesso tempo, renderla interattiva, tradurla cioè in un videogioco? E in cosa cambia o si complica il ruolo dell’autore, quando il pubblico diventa anche protagonista?
Il punto non è solo raccontare una sequenza di eventi, ma creare una connessione emotiva con l’audience. Questo è fondamentale, ed è alla base di Last Day of June, che definirei quasi un esperimento. È un’opera che avvicina lo storytelling lineare del cinema a quello interattivo. Nel nostro caso, la storia è raccontata proprio attraverso l’interazione. Uno dei grandi problemi nella commistione tra videogiochi e cinema è che spesso si tenta di inserire una narrazione lineare all’interno di un sistema di gioco. Questo è complicato, perché da un lato abbiamo l’interattività, che dà libertà al giocatore, dall’altro una sequenza di eventi fissa, con emozioni, stati d’animo, sviluppo. Queste due cose spesso cozzano. Perché da una parte c’è la libertà, dall’altra una linearità imposta. Per me, un videogioco dovrebbe raccontare una storia con il proprio vocabolario: interazione, scelta, sfida e regole. È necessario fin da subito costruire un rapporto empatico, perché il videogioco permette un’esperienza in prima persona, e questo genera una forte immedesimazione. La parte più difficile è proprio questa: raccontare una storia attraverso ciò che il giocatore decide di fare. Ovviamente le scelte sono limitate e controllate da chi crea il gioco – non si può raccontare “tutto e il contrario di tutto”. Ci sono dei paletti.
Cioè?
Chi scrive per i videogiochi, secondo me, deve creare un mondo ben definito e piazzarci dentro dei “punti fissi”, che il giocatore sarà libero di unire. I temi sono fondamentali. Vanno vissuti in prima persona e diventano parte dell’esperienza emotiva del giocatore. Per me, si tratta sempre di emozioni. Le emozioni sono un linguaggio universale: tutti le capiscono, a prescindere dal mezzo.
Passando a un altro progetto su cui hai lavorato: Naruto del 2007 per Xbox 360. Secondo te è più difficile trasporre un videogioco in un prodotto seriale o cinematografico, oppure il contrario? Qual è la sfida più grande nel tradurre un linguaggio pensato per un mezzo in un altro?
Penso che sia difficile in entrambi i casi, anche se in modo diverso. Dipende molto dal contesto e da come è costruito il mondo narrativo. Ti faccio un esempio: con Naruto è stato relativamente semplice, perché è un franchise con delle regole chiare, pieno di azione, ben strutturato. Il world-building è forte e si presta in modo naturale all’interazione. Diverso è il caso di giochi come Minecraft. Minecraft, da un certo punto di vista, è quasi impossibile da trasporre, o comunque inutile. È una mia opinione, ovviamente. Poi certo, si fanno operazioni di mercato…
Cosa intendi per “inutile”? Pensi che sia difficile e al contempo poco sensato trasporlo in un film?
Dal punto di vista del branding ha senso: è un’operazione commerciale. Ma da un punto di vista creativo, autoriale, artistico… no, non ha senso. Non c’è un vero impianto narrativo, va tutto creato da zero. Si rischia di ottenere qualcosa di forzato, magari divertente per chi ha già vissuto quel mondo, ma povero dal punto di vista del racconto. È un discorso che vale per tanti altri titoli – Fortnite, ad esempio. È difficile costruire un viaggio dell’eroe o un centro drammaturgico coerente quando manca una base narrativa. Quindi sì, forse è un po’ più semplice trasporre da lineare a interattivo, piuttosto che il contrario.
Chiaro. Perché in certi giochi, come dicevi, la narrazione non è una priorità.
Esatto. Giochi come Brawl Stars, Among Us, pur molto popolari, per scelta non hanno una narrazione strutturata. Diverso è il caso di The Last of Us, che ha un world-building fortissimo.

The Last of Us, un successo enorme sia il gioco che la serie con Pedro Pascal. Cosa ne pensi della serie, quali sono le differenze o analogie con il videogioco?
Sì, conosco molto bene entrambi. Il videogioco è già di per sé narrativo, profondo, con temi importanti: paternità, moralità, sopravvivenza. La serie è stata una trasposizione molto fedele. Ha ampliato soprattutto i personaggi secondari, cosa possibile grazie alla forma lineare del racconto. Nel videogioco sarebbe stato troppo oneroso – avrebbe interferito con l’engagement del giocatore. Ma nella serie c’era spazio per farlo. Penso che il successo della serie derivi proprio da questo: è rimasta fedele all’impatto emotivo del gioco, e ha permesso a tutti – anche a chi non ha mai giocato – di provare empatia. Il legame padre-figlia è qualcosa di universale. Il contesto post-apocalittico con zombie è solo una cornice, ma efficace.
Infatti traspare molto anche dai tuoi lavori questo approccio. Meglio il videogioco o la serie?
Domanda difficilissima! Personalmente preferisco il videogioco, forse per un legame affettivo. Ma la serie funziona benissimo anche da sola, per chi non conosceva l’IP. Quindi alla fine è soggettivo: entrambi sono solidi, coesi. È una questione di esperienza personale.
È anche divertente vedere come pubblico di giocatori e spettatori si “scannino” quando si parla di adattamenti.
Sì, soprattutto con certi colpi di scena che nel gioco erano già noti… È sempre affascinante vedere come reagiscono pubblici diversi.
Parliamo di intelligenza artificiale. Come si sta integrando nel mondo dei videogiochi e cosa ci aspetta in futuro?
Sicuramente un aumento della credibilità, soprattutto dei personaggi non giocanti. L’IA nei videogiochi esiste da sempre, anche se non veniva chiamata così. Erano script, regole, comportamenti predefiniti. Anche i fantasmini di Pac-Man seguivano regole. Oggi, con l’IA generativa, si aprono scenari nuovi. Non credo che sostituirà la creatività, ma la potenzierà. Come è successo passando dall’animazione disegnata a mano a quella digitale: gli animatori esistono ancora. L’IA aiuterà chi ha idee ma non ha mezzi tecnici. E nei videogiochi, potrà migliorare tantissimo l’interazione emotiva. Immagina un personaggio non giocante con cui puoi davvero dialogare, grazie a un LLM addestrato sul mondo del gioco. L’impatto sarà enorme.
Quindi anche l’immedesimazione aumenterà?
Sì, e l’interazione. Tutto questo migliorerà l’esperienza, la renderà più profonda, senza essere una rivoluzione totale, ma un’evoluzione naturale di quanto già avviato anni fa.
