Atterra stasera su RaiTre, alle 22, “Materia viva”, il primo docufilm che indaga sull’importanza di una corretta gestione dei RAEE, i Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche, e sul loro ruolo strategico nell’ottica di una transizione verso un modello economico circolare. Ok, fermi: mica crederete che la Rai perda tempo con un pippone educational in cui il vostro vicino di casa più antipatico vi descrive il brivido che lo percorse quando per la prima volta portò un vecchio frullatore in discarica, vero? “Materia viva” è un viaggio anche su RaiPlay. Scritto da Andrea Frassoni e Marco Falorni, che ne hanno curato la regia insieme a Stefania Vialetto, il docufilm inizia e si chiude con un omaggio a Piero Angela e una sua riflessione sul rapporto tra esseri umani, tecnologia e ambiente. E tra i protagonisti vanta: Susan Sarandon, Carlo Conti, Federica Pellegrini, Alessandro Del Piero, Irene Grandi e Luca Perri. Nonché – lo abbiamo tenuto in disparte apposta – un certo Tormento, protagonista da sempre – da quando ci mise piede nel 1994 –, con e senza i Sottotono, della scena hip hop italiana. “Mi auguro che Materia viva faccia conoscere alla gente Massimiliano, prima ancora che Tormento – afferma Marco Falorni. Lui ha donato a quest’opera una specificità che altri non possiedono. Con serenità ci ha raccontato di come la natura lo abbia ispirato. Ma anche aiutato a superare, ad esempio, un attacco di panico. Spero che faccia conoscere al pubblico un lato diverso di Tormento. La leggerezza, la pace, con cui comunica i suoi ideali è sbalorditiva”. Noi di MOW lo abbiamo intervistato e ci ha raccontato molto altro, sulla scena musicale di ieri e di oggi.
Come sei finito al centro di “Materia viva”?
Un artista come me è cresciuto con tanta musica elettronica che poi, via via, si è ulteriormente sviluppata grazie alla tecnologia. Ripenso ai primi campionatori, ai synth, che hanno permesso a noi ragazzi che non avevamo studiato musica, ma avevamo un sacco di vinili, di metterci in gioco. La tecnologia ci ha aiutati, ci ha dato la spinta. Questo documentario ci fa capire come, attraverso la natura, sia ormai cruciale avere un rapporto sano ed equilibrato con gli apparecchi elettrici e la tecnologia. In genere non tendiamo ad associare natura e tecnologia, eppure oggi c’è un’urgenza ambientale chiara. La tecnologia deve rispettare la natura; siamo pieni di apparecchi elettrici ed elettronici, tutta materia che va rimessa in circolo.
È una consapevolezza recente, la tua?
È una passione, più che una consapevolezza. Da una ventina d’anni mi sono avvicinato alla permacultura, un sistema che cerca un confronto e una forma di cooperazione con la natura per permetterci di produrre cibo evitando lo sfruttamento dell’agricoltura tradizionale. Sono anni che studio questo equilibrio tra cibo e ambiente, proprio per avere nei confronti dell’ambiente un approccio più profondo, quasi spirituale. Una dimensione che mi ha enormemente aiutato a livello professionale, in termini di ispirazione e creatività. Entrare in contatto con le piante, per dire, mi ha fatto passare da uno stato mentale agitato, ansioso, molto tipico dei nostri tempi, a qualcosa di più etereo e nutriente.
E in questo scenario così ampio, entro il quale, attraverso la tua esperienza personale, sei riuscito ad unire puntini apparentemente lontani, dove si colloca l’hip hop? L’hip hop di oggi sembra disinteressato al tema dell’ambiente.
Le nuove generazioni non ospitano questi temi all’interno delle rime, ma i rapper della mia generazione sì. Oggi questi argomenti hanno poco appeal, anche perché da sempre è la leggerezza a farla da padrona, non dimentichiamolo. Però io sono cresciuto con l’hip hop inteso come cultura che univa altre culture lontane, che proponeva temi e suggestioni globali positivi prima che un’altra globalizzazione, quella economica e finanziaria, si mostrasse spesso oppressiva. La danza, la moda, i graffiti, i dischi: l’hip hop proponeva una cultura nuova – una nuova arte – figlia di tanti stimoli diversi. E negli anni ’90 faceva luce su problemi che oggi sono davanti agli occhi di tutti. L’hip hop i puntini di cui parlavi li unisce tutti, da sempre. Forse ancora di più nei ’90. Volevamo avere gli skate park, le sale prove, dei punti di riferimento alternativi per tutti quei ragazzi che non avevano possibilità economiche. Un discorso purtroppo non ascoltato, che negli anni ha preso una piega ben diversa. Come riferimenti sono rimaste le (poche) discoteche. E tanta ignoranza, associata a una scarsa coscienza sociale.
Riparto dal vostro hip hop, quello dei Sottotono. Com’è andato “Originali”, l’ultimo album del 2021?
Mah, è stato un disco molto apprezzato, ben accolto da tutti. Non ha sbancato a livello commerciale, ma ha seminato bene. Però la mia rinascita risale a due anni prima ancora, quando pubblicai “Acqua su marte” con i Meduza e J-Ax. Quello è stato anche l’inizio di un riavvicinamento a Fish. Pian piano il progetto di “Originali” ha preso vita. È stato davvero pazzesco vedere la nuova guardia abbracciare la nostra musica. Elodie, Mahmood, Coez, Tiziano Ferro, Guè, Marra: tutti hanno voluto partecipare alla celebrazione di un’epoca. Solo per questo “Originali” è stato un successo, perché è stato in grado di saldare insieme la vecchia e la nuova scuola. È stato un disco ambizioso, adulto, musicalmente ricercato. Il fatto che un brano così hip hop come “Mastroianni” sia comunque andato primo in classifica è stato un evento, considerato il tipo di traccia. Poi il platino non è arrivato, ma chi se ne frega. Ci godiamo i dischi di platino già appesi in salotto. Anche perché poi i numeri non sono tutto, meglio lasciare alla gente canzoni che un giorno ricorderà.
Ecco, la nuova generazione che brani sta lasciando alla gente?
Sono tutti ragazzi molto crudi, che mi ricordano la violenza verbale di 2Pac, N.W.A., Public Enemy. Anche un po’ ignoranti, arrabbiati, corrosi da una grossa ansia da prestazione volta a un immediato riconoscimento. Non tanto artistico, soprattutto economico. Sono senza i filtri che ci siamo costruiti, anche un po’ ipocritamente, noi adulti, e sono la perfetta fotografia dei tempi che stiamo vivendo. Dovremmo ascoltarli e studiarli. Parlano di pillole e pistole, cose che già sentivo negli anni ’90. Peccato che l’hip hop all’epoca indicasse anche una via d’uscita, ossia provare a realizzare sé stessi all’interno del sistema. Ora mi sembra che siamo tornati a nuotare in un mare di indifferenza e ignoranza.
Tu, che la musica spesso la produci, sembri in una fase di attento ascolto.
Perché bisognerebbe ascoltare di più i giovani. Loro le offrono le chiavi per capirli, ma non li ascoltiamo. Criticare senza ascoltare è solo dannoso.
Però oggi, al netto del disagio, ci sono meno brani resistenti all’urto dei tempi. L’onda violenta dei dissing e delle polemiche estive – più che della musica – non ti ha colpito?
Certo, ma anche qui torno a un passato che ho vissuto e conosco. Negli anni ’90 c’erano un sacco di faide. O anche semplici polemiche tra piccoli gruppi. Oggi la differenza è che tutto finisce sui social e si amplifica. Siamo comunque rimasti vittime di eterne divisioni. Dentro l’hip hop ma anche fuori, nella società. Mi chiedo dove finiscano le canzoni, in un contesto simile. Beh, alcune canzoni di oggi per noi adulti non dureranno, finiranno come lacrime nella pioggia, ma sono la formazione dei nostri figli. Loro se le ricorderanno per sempre, saranno la loro memoria. Ringraziamo i giovani che tengono vivo il mercato discografico, perché tutti gli adulti che conosco preferiscono ancora ascoltare i brani dei loro vent’anni.
Parli di hip hop, ma la trap?
L’altra sera suonavo prima di Paky, che è molto bravo. E ti dico che quando uno si esprime col cuore fa hip hop e basta. Poi chiamatela pure drill, trap o come volete, ma il linguaggio è quello del rap. Queste 808 giganti (il suono del basso, ndr) che si sentono nella trap, la classica batteria elettronica della trap, sono figlie dei suoni del sud degli States che ascoltavamo io e Fish da giovani. Del crunk, di Lil’ Wayne.
Citi Paki. Nella selva di trapper di queste ultime stagioni, chi svetta in termini di stile e qualità?
Quando mi esprimo su queste cose qualcuno dice sempre che a me piace buttare un fiammifero nel pagliaio (ride, nda). Shiva, Rondo, Paky per la gente della mia età sono il nemico pubblico, ma io li apprezzo. Ci stanno raccontando la società di oggi e musicalmente rappresentano già una generazione successiva a quella di Tedua e Sfera. Poi ci sono anche Artie 5ive, Tony Boy, Mambo. Quando faccio questi nomi mi dicono che non ho più le orecchie, ma io i classici li ascolto ancora, eh. Però sul rap di oggi tengo le biglie ben aperte. Perché il rap è ancora la migliore CNN possibile.
E il tuo, di mondo? Su cosa stai lavorando?
Ho già pronti un paio di brani con Al Castellana, sul fronte più soul e R&B. Sto lavorando al mio album come Tormento, con Fish stiamo buttando giù nuove idee. E sto finendo il mio secondo libro. Nell’immediato, il 14 ottobre, sarò a Roma al Traffic Live insieme a mio fratello Esa e Ice One per festeggiare i 50 anni dell’hip hop.
Ogni volta che penso che tu ed Esa siete fratelli ci rimango secco. Siete così diversi…
Uniti dalla passione, fin da piccoli, ma sempre diversi. Quando eravamo pischelli Esa prese un disco di 2Pac che mi passò perché a lui non interessava. “A te piacerà, mi disse” e lui, geniale, già scavava nell’underground (ride, nda)”.