Di Irène Némirovsky, scrittrice amata dal pubblico italiano fin dall’uscita di Suite francese presso Adelphi nel 2005 (da cui il film diretto da Saul Dibb nel 2014, con Michelle Williams e Kristin Scott Thomas), lo stesso editore ha appena dato alle stampe la “seconda versione” della prima parte di quel capolavoro, intitolata Tempesta in giugno. In questa nuova copertina Adelphi campeggia Il vento, un dipinto di Félix Valloton del 1910, dove le chiome di alberi e arbusti si piegano sferzate dall’aria che corre violenta: come l’attacco tedesco sferrato alla Francia nel maggio 1940, che spinse verso le aree di provincia torme di sfollati in fuga da Parigi, in un esodo narrato con forza, ironia e precisione da una Némirovsky inimitabile – ma molto imitata nella narrativa del nostro Novecento. Si tratta della versione dattiloscritta dal marito Michel Epstein e da lei corretta a mano, con l’aggiunta di quattro capitoli e altri rimaneggiamenti: tutti documenti che erano custoditi dalla figlia e riscoperti dopo anni, quando Némirovsky era ritornata alla fama con trentotto traduzioni nel mondo e milioni di copie vendute. Tempesta in giugno è il primo “movimento” di quello che era stato progettato come un “Poema sinfonico” in cinque parti, di cui si sono realizzate solo le prime due, contenute in Suite Francese uscito da noi diciassette anni fa. Le parti successive avrebbero dovuto intitolarsi Captivité, Batailles, La Paix, di cui esistono solo abbozzi: il progetto era grandioso, ma la vita della Némirovsky venne stroncata brutalmente dalla deportazione nazista. A causa delle leggi antisemite varate nel ’40 dal governo collaborazionista francese, il marito Michel Epstein non poté più lavorare in banca e a Irène Némirovsky fu proibito pubblicare articoli e scritti di qualsiasi tipo. Entrambi si trasferirono l’anno seguente a Issy-l’Évêque, villaggio della Saône-et-Loire, dove avevano messo al sicuro le figlie, e lì Irène mise mano al suo progetto. Ma fu arrestata come ebrea dalla guardia nazionale francese il 13 luglio 1942 e trasferita a Toulon-sur-Arroux, dove rimase imprigionata per due notti: “Amore mio, in questo momento sono seduta alla gendarmeria dove ho mangiato ribes in attesa che venissero a prendermi. Soprattutto, sta’ tranquillo, sono certa che sarà questione di poco… Copri di baci le mie adorate bambine… Se poteste mandarmi qualcosa… Libri, per favore, e se possibile anche un po’ di burro salato”, riuscì a scrivere al marito. Il 15 luglio fu portata al campo d’internamento di Pithiviers e il giorno seguente spedita a Auschwitz, dove morì di tifo un mese dopo. Suo marito fece di tutto per farla liberare, ma fu arrestato a sua volta nell’ottobre del ’42, deportato ad Auschwitz assieme alla sorella e finito direttamente nelle camere a gas. Tempesta in giugno è il racconto, avvincente e spietato, dell’esodo di massa dei parigini che, con l’incombere delle truppe naziste sulla capitale, si danno alla fuga con figli, vecchi, malati, con materassi e suppellettili caricati su automezzi di ogni tipo. Una specie di odissea disordinata in un grande affresco corale di persone, paure, disavventure, egoismi e solidarietà di diverse classi sociali: la famiglia Péricand, altoborghese e imparentata con altre famiglie di notabili; lo scrittore Gabriel Corte, accademico di Francia, spocchioso e vilmente ipocrita; Maurice e Jeanne Michaud, una coppia piccolo-borghese che lavora presso la Banca del signor Corbin, che è costretto a lasciarli a piedi nella fuga in auto per trasferire tutti i documenti bancari a Tours, perché ricattato dall’amante ballerina che ha occupato i loro posti; Charlie Langelet, benestante sessantenne scapolo ossessionato dalla sua collezione di porcellane preziose, che ama sopra ogni cosa. Il 12 giugno 1942, pochi giorni prima del suo arresto, la Némirovsky sente di non aver più tempo, ma continua a redigere i suoi appunti per la stesura del libro. Queste le sue annotazioni: “Il libro in sé deve dare l’impressione di essere semplicemente un episodio... com’è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque... ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico... collegamenti delle parti fra loro. Tempête, Dolce, dolcezza e tragedia. Captivité? Qualcosa di smorzato, di soffocato, il più possibile cattivo. Dopo non so. L'importante – i rapporti fra le diverse parti dell'opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia.
Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile”. E in lei lo stile c’è, personalissimo e moderno, con una sorta di montaggio cinematografico che tiene incollate sia le storie che s’incrociano sia il lettore, che non ha nessuna voglia di fermarsi. È particolare la stesura “in presa diretta” di ciò che accade, della catastrofe che taglia l’esistenza smascherando la natura delle persone, con le loro mediocrità, ipocrisie, opportunismi, ma anche il realismo solidale e la nobiltà d’animo. Un classico moderno, un’opera corale novecentesca che lascia il segno, con gli psicodrammi scaturiti dalla minaccia feroce della guerra e dall’incertezza sul futuro, dal desiderio di rivalsa contro il nemico comune e dalla corsa verso qualsiasi forma di salvezza. Un coacervo di situazioni sempre attuale, come dimostrano le vicende tragiche di questi giorni – l’Ucraina aggredita –, che s’innervano nel racconto della Némirovsky, ebrea nata a Kiev l’11 febbraio 1903. A pagina 41 diamo uno sguardo in casa Péricand, altoborghesi muniti di cameriera, cuoca, bambinaia e altro personale, alla vigilia della fuga. “Attraverso la porta socchiusa la signora Péricand avvertì la presenza degli altri domestici: la cameriera, spinta dall’apprensione, si portò addirittura fin sulla soglia, e alla signora Péricand questa infrazione alle usanze parve un brutto segno: è così che, durante un naufragio, tutte le classi sociali si ritrovano mescolate sul ponte. Ebbene, à la guerre comme à la guerre. Si voltò verso il vestibolo in ombra e disse con magnanimità: «Potete ascoltare il notiziario, se volete». «Grazie, signora» mormorarono alcune voci rispettose, e i domestici entrarono circospetti nel salotto, eccetto la cuoca, che rimase indietro, a disagio per via delle mani che sapevano di pesce. Il notiziario, del resto, era terminato. Ora seguivano i commenti: la situazione era «seria, certo, ma non tale da giustificare pronostici allarmanti» assicurava lo speaker. Parlava con una voce così rotonda, così calma e rassicurante (ma che si faceva squillante allorché pronunciava parole come «Francia», «patria», «esercito») da infondere ottimismo nei cuori di chi lo ascoltava. Aveva un modo tutto suo di dar lettura del comunicato secondo il quale «il nemico continua a martellare accanitamente le nostre posizioni, scontrandosi con la vigorosa resistenza delle nostre truppe». Leggeva la prima parte della frase con tono leggero, ironico e sprezzante, quasi volesse dire: «Ecco, perlomeno è quello che cercano di farvi credere». In compenso sottolineava con forza ogni sillaba della seconda parte, scandendo l’aggettivo «vigorosa» e le parole «nostre truppe» con tanta sicurezza che la gente non poteva fare a meno di pensare: «Non è davvero il caso di preoccuparci più di tanto». E ora lo scrittore Gabriel Corte, da pagina 51: qui le fisime proverbiali di quell’ambiente si dimostrano sempre attuali, sembra di guardare l’oggi. “Era famoso. I colleghi lo invidiavano perché guadagnava molto. Lui stesso raccontava con acredine, con quella risata sprezzante che irritava gli uomini e piaceva alle donne, che alla sua prima candidatura all’Académie française uno degli elettori, sollecitato a votare per lui, aveva risposto con una certa indignazione: «Ha tre linee telefoniche. È indecente. Non avrà il mio voto». Aveva modi languidi e crudeli come quelli di un gatto, mani morbide, espressive, e un volto da Cesare un po’ imbolsito. Solo Florence, l’amante ufficiale, l’unica autorizzata a dividere il suo letto per tutta la notte (le altre non dormivano mai con lui), avrebbe potuto dire quanto, all’alba, la maschera cominciasse a somigliare a quella di una vecchia civetta, con le borse livide sotto gli occhi e le sopracciglia femminili, appuntite, troppo sottili. (…) Il Gabriel Corte di oggi si ricordava a malapena del misero scrittore morto di fame che aveva combattuto a Charleroi e a Verdun. Da un punto di vista strettamente letterario, non aveva niente da obiettare alla guerra. Anzi, la trovava esaltante: accendeva l’immaginazione di un mucchio di poveri diavoli, prima di spegnerla per sempre. Non sopportava, però, l’insolenza della guerra rispetto a lui, Gabriel Corte, quella maniera di rimbombargli nelle orecchie come la tromba che annuncia il giorno del giudizio. Lo distoglieva dal suo compito, gli procurava un disgusto di sé, gli faceva pensare di non essere né immortale né poi così eccezionale: un mucchietto d’ossa e di carne come tutti, così fragile, così vulnerabile, così facile da distruggere. Lo infastidiva, lo affaticava, lo costringeva a condividere le speranze e i timori del popolo. Non che sottovalutasse la grandezza terrificante della massa o della realtà in generale, ma le accettava soltanto a debita distanza, mentre la guerra abbatteva ogni barriera. I giornali, poi... Gettò un’occhiata ai giornali letti, buttati via, accartocciati, recuperati. «Insomma, niente di nuovo» disse”.
Molti considerano Tempesta in giugno un vero dono, non solo agli affezionati a Iréne Némirovsky, ma anche ai lettori che sanno viverne i vortici di ironia, di contrasti e di lucidità tipici della vera letteratura. È un romanzo attuale, senza mezze misure, diretto, che sta a sé come se non fosse incompiuto, perché intreccia le vicende umane nel quadro reale e simbolico della guerra del pieno Novecento, fatta contro la gente. Trenta capitoli accompagnati da un preludio e da un finale, pronti per andare a formare un’epopea che purtroppo non si poté realizzare. Ma resta un’opera che sconfina nel tempo perché moderna, precisa nel suo realismo e nei suoi dettagli, dipanata come in un film e perfettamente inserita nel racconto della Storia. Concludiamo entrando nel vivo della fuga degli sfollati, a pagina 97: qualcosa che ci tocca da vicino anche oggi. “Per i Péricand il tragitto era irto di ostacoli: dopo che la loro macchina era stata ridotta in frantumi da un camion militare, erano montati tutti in quella che trasportava i domestici e i bagagli. Quest’ultima, piegata sotto il peso del carico, aveva esalato l’ultimo respiro. Fu rimorchiata per qualche chilometro. I Péricand si fermarono allora in una cittadina del Centro, dove speravano di trovare una camera libera. Ma le strade già erano intasate da ogni sorta di veicoli e nell’aria echeggiava lo stridore dei freni sottoposti a dura prova. La piazza antistante al fiume sembrava un accampamento di zingari. Uomini esausti dormivano per terra, altri si lavavano sul prato. Una giovane donna aveva fissato un piccolo specchio a un albero e, in piedi, si truccava, un’altra si pettinava. Un’altra ancora lavava alla fontana delle fasce per neonati. Gli abitanti del posto erano usciti sulla soglia di casa e contemplavano quello spettacolo con un’espressione di profondo stupore. «Poveracci... Cosa ci tocca vedere!» dicevano compassionevoli ma con una certa intima soddisfazione, poiché quei profughi venivano da Parigi, da nord, da est, da province destinate all’invasione e alla guerra. Loro, invece, avrebbero continuato a vendere pentole e nastri, a mangiare la minestra calda in cucina e, di sera, a chiudere il cancelletto che separava il loro giardino dal resto del mondo. Le automobili aspettavano il proprio turno per rifornirsi di benzina, che ormai scarseggiava. I residenti chiedevano notizie agli sfollati, lì non si sapeva niente. Qualcuno dichiarò che «i tedeschi sarebbero stati sconfitti sui monti del Morvan», parole accolte con un certo scetticismo. (…) Arrivavano altre macchine, e altre ancora. «Che aria stanca e accaldata hanno» ripeteva la gente, ma nessuno prendeva l’iniziativa di aprire la porta, di accogliere qualcuno di quegli infelici, di farlo entrare in uno di quei piccoli paradisi ombreggiati che si intravedevano vagamente dietro ogni casa, con la panca di legno sotto una pergola, le piante di ribes e le rose. I profughi erano troppi, troppi i bambini che piangevano, troppe le bocche tremanti che chiedevano: «Sapete dove si possa trovare una camera? Un letto?», «Potrebbe indicarci un ristorante, signora?». Tutto questo toglieva la voglia di mostrarsi caritatevoli. Quella folla miserabile non aveva più niente di umano, somigliava a un branco di animali in rotta. Una strana uniformità li accomunava: i vestiti stazzonati, le facce sconvolte, le voci arrochite, tutto li rendeva simili. Facevano gli stessi gesti, pronunciavano le stesse parole. Scendendo dalla macchina vacillavano un po’, come ubriachi, e si portavano le mani alla fronte e alle tempie doloranti”.