“Scandaloso, osceno, ripugnante (…) questo è un oltraggio, e il denaro delle tasse dei cittadini non dovrebbe servire a sostenere queste porcherie e a dar loro dignità”. Così il senatore D’Amato commentava l’opera Piss Christ di Andrés Serrano. Nell’opera vediamo un crocifisso immerso nel piscio dell’autore scatenando l’ira del politico. Se vivessimo in una società civile, o pseudo tale, un attacco tanto devastante, almeno verbalmente, sarebbe stato rivolto alle foto di Abu Ghraib. L’America ce l’aveva fatta: a pochi anni dall’inizio della guerra al terrorismo aveva superato il surrealismo del fotografo creando un’opera d’arte reazionaria, come tutti gli artisti che pensano che la violenza, soprattutto pornografica, possa smuovere la coscienza di qualcuno. Nessuno, a parte Nick Drnaso col graphic novel Sabrina, ha saputo raccontare il nuovo millennio meglio di Paul Schrader in The Card Counter. È questa, fino a ora, la vera rivelazione di Venezia78.
Tralasciando l’horror di matrice psicologica che è Spencer, e la meravigliosa nostalgia pastorale di “É stata la mano di Dio”, Paul Schrader è tornato a fare quello che gli viene meglio: raccontare la condizione umana tramite gli occhi di un outsider. William Tell conosciuto precedentemente come Tillich (un granitico quanto commovente Oscar Isaac) è un giocatore d’azzardo che vive in una solitudine quasi religiosa passando da un luogo all’altro, nel ventre di quell’America che è fatta per le storie on the road. Non vuole che le cose le tocchino (la stanza del suo motel, ogni oggetto è ricoperto da lenzuola bianche), e non vuole toccare nessuno - lo stesso vestiario essenziale e una biografia urlata quanto detta in una lingua incomprensibile -. Tiene un diario che è una confessione, tipico ‘privilegio dei colpevoli’, e una coscienza da redimere. Tormentato dai ricordi di ex guardia ad Abu Ghraib, il più famigerato tra i siti neri, nostalgico della pace trovata in otto anni di prigione, i continenti sommersi della sua colpa emergono quando incontra il giovane Cirk (Tye Sheridan), figlio di una famiglia malata quanto sempre più tradizionale: il padre era un ex guardia di Abu Ghraib, disonorata militarmente, incarcerata, prodotto come Tellich del contractor, ed ex Maggiore, John Gordon (Willem Defoe). Gli abusi subiti da un padre violento e dipendente da ossicodone, vera e propria piaga negli States, creano un legame emotivo col giocatore d’azzardo che decide di prenderlo sotto la sua ala per dissuaderlo dai propositi di vendetta contro John Gordon. La redenzione di Tillich inizia sottomettendosi a un finanziatore trovato dalla intermediaria La Linda (una delicata Tifanny Haddish) e i tre, incontrandosi in svariati posti nell’indifferenza dell’America, da un casinò all’altro, creano un rapporto che ha il sentore di una famiglia. Come riuscire a far capire al pubblico italiano The Card Counter quando gli stessi americani, come i tedeschi a suo tempo, vogliono cancellare dall’album dei ricordi i membri malati di una famiglia globale, i militari, che hanno interrotto bruscamente qualsiasi colloquio con la propria umanità? Neanche nell’aprile del 2004, quando vennero pubblicate le foto degne di un girone pasoliniano, l’opinione pubblica e i media americani si trovarono concordi a puntare il dito contro la CIA e quelle alte gerarchie che non sono mai state punite. Per tutto il film c’è una atmosfera ossessiva, una certezza di inevitabilità, e in quelle decine di ore al giorno che Tillich passa a giocare a carte hanno tutta la dignità di un uomo che ha già squarciato il velo di Maya e non ha trovato niente.
Contrariamente alla miseria, alla crudeltà brutale, perché stupida, di John Gordon (i flashback a fish eye di Tillich trasmettono la sensazione malata di guardare dallo spioncino uno snuff movie in diretta) e di tutti quei contractor che sulla salute dei prigionieri e dell’America stessa ci hanno lucrato a dismisura. Altrettanto parodistica e divertente è il personaggio di Mr. USA, campione indiscusso da battere sul tavolo da gioco, che gira avvolto dalla bandiera americana mentre la sua corte dei miracoli grida U.S.A a ogni partita. Non è difficile immaginare in quella banda di imbecilli descritti in maniera deliziosa, gli stessi elettori che hanno sostenuto l’esportazione della democrazia, a suon di bombardamenti, e il Patriot Act. The Card Counter è l’incubo in cui l’America vive dalla caduta delle Torri, e tra pochi giorni cadrà il ventennale, e Paul Schrader anno dopo anno, non solo con First Reformed, si avvicina alle domande esistenziali che tormentavano Bergman. Se Dio esiste perché ‘la vita deve essere un tale schifo?’. E se non esiste Dio possiamo perdonare noi stessi e smettere di vivere in un sogno malato? Se le nostre mani sono sporche di sangue chi conterà le vittime? Eppure, al di là della violenza MacGuffin (termine coniato da Alfred Hitchcock che indica il modo in cui si riesce a dare dinamicità a una trama) e del disincanto trasmesso da una colonna sonora scelta per dissociare il pubblico, c’è la sensazione che se ci siamo persi verremo ritrovati e, forse, perdonati.