Dentista, padre di famiglia, ossessivamente ligio al lavoro nonché devoto a moglie e figlie, vive a Latina in una casa assurda con due grandi oblò che spiano il mondo fuori da lontano lontano, sovrastando lo spicchio di piscina color blu dipinto di blu e una scala esterna che è difficile distinguere da uno scivolo d’Aquapark. Esteticamente molto Jacques Tati la stramba dimora di Massimo Sisti, interpretato da un superlativo Elio Germano. A chiudere il cerchio, un paio cani, un amico (Maurizio Lastrico, noto per i suoi monologhi in terzine dantesche a Zelig), un padre con cui è in guerra da una vita e un grande scomodissimo segreto nascosto in cantina che lo corrode lentamente ma inesorabilmente di giorno in giorno, coi ritmi della tortura della goccia cinese. Gli stessi ritmi (e medesimi risultati) che il film America Latina dei fratelli D’Innocenzo infligge a chi vi si approccia con la malaugurata idea di provare a prenderlo sul serio. Salutata da qualche pernacchia - come anche, a onor del vero, da timidi entusiasmi - già alla Mostra del Cinema di Venezia, la terza fatica dei consanguinei registi romani può contare, prima ancora di essere vista, sul richiamo del “grande cinema” per portare spettatori in sala. Su questo, infatti, si basa il pressante battage della comunicazione social. Su questo e su un poderoso segno della croce, vista la smattata straripante insulti in cui Fabio D’Innocenzo si è pur prodotto alla viglia dell’uscita di America Latina sul profilo di un giornalista reo di non aver gradito il lungometraggio. Tutto è bene, però, quel che finisce bene: il buon Fabio s’è scusato, i cinefili non hanno parlato d’altro per qualche ora e il pubblico s’è bellamente infischiato di tutta ‘sta caciara. Caciara che ha goduto, non ne dubitiamo, dello stesso destino che avrà il film. E non vediamo l’ora di spiegarvi come mai.
America Latina è un viaggio nella testa rotta (come da eloquente locandina) del suo protagonista, Massimo Sisti. Con questo personaggio, Elio Germano dà l’ennesima mirabilissima prova d’attore ma la sua performance non basta a salvare il film dall’oceano di pretenziosità in cui annaspa scena dopo scena fino all’inevitabile naufragio. Se l’idea di base è di per sè promettente (delle due l’una: abbiamo davanti un disturbato mentale o qualcuno sta tentando la carta della circonvenzione di (un in realtà capacissimo) incapace?), il suo svolgimento è terribilmente lento, ferale: più che la discesa agli inferi del protagonista (pazzo? Sano di mente?), di America Latina si ricorderà l’assopimento dello spettatore. Si stima che almeno sette individui su dieci, infatti, giungano ai titoli di coda in piena fase R.E.M. Non la band di Michael Stype. Che qui, poi, la colonna sonora è curata dai Verdena. Quel gruppo che andava fortissimo negli anni Novanta e che oggi fa sdilinquire tutti ogni rarissima volta che produce un sottil peto in nome di un glorioso passato così passato che ora come ora si perde più nei contorni della leggenda che della fattuale realtà. Però che nostalgia i Verdena, i grandi, irreprensibili Verdena. Post-requiem per un wow.
La pretenziosità dei registi, dicevamo, uccide quello che poteva essere a tutti gli effetti un buon film tra inquadrature che trasudano amore (e auto-compiacimento) per la regia, scelte coraggiose e immagini più parlanti degli stessi personaggi (la sceneggiatura, praticamente disossata, è utilissima a conferire alla pellicola un’aria inquieta, disturbante, fatta di pochissime parole e lunghi silenzi malintesi). Cosa succede, però? Succede però che, se America Latina è di sicuro qualcosa di “diverso” dal “solito” cinema italiano, non è necessariamente detto che “diverso” significhi “migliore”. Detta brutale: Pieraccioni avrebbe raccontato questa storia in un’altra maniera o non l’avrebbe raccontata affatto? Sicuro. Ma, va da sè, ciò non basta a stabilire l’originalità di un’opera. Se questo tipo di inconoscibile sospensione vi affascina e i ritmi lenti non vi spaventano, per fortuna esiste il regista (da Oscar con La Favorita) Yorgos Lanthimos e, nel caso specifico, il suo esordio cinematografico Dogtooth da cui America Latina a livello di immaginario, location e verrebbe da dire pure scenografia attinge a piene mani. E lo stesso fa, novello Lupin, da Miss Violence di Alexandros Avranas, premiato a Venezia nel 2013, lui sì, con il Leone d’Argento per la Regia e che ha messo in saccoccia pure la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile tributata al suo meschino protagonista (l’attore Themis Panou). Per altro, attualmente, è disponibilissimo su Prime Video se vi va di canticchiare (all’indirizzo dei D’Innocenzo) Tu vò fa l’originale.
Attenzione, non stiamo parlando di plagio: stiamo semplicemente indicando come i due registi abbiano ripreso da un immaginario già pre-esistente e consolidato (che però conoscono - bene - in tre gatti qui da noi) per apparire come qualcosa di nuovo, diverso, una voce fuori dal coro all’interno del pressoché desolante panorama cinematografico nostrano. Però, se questa dev’essere l’innovazione, ridateci pure amorazzi, corna e trame che si snodano in modo lineare tra le loro cause e i conseguenti effetti con qualche equivoco qua e là. Anche perché il rischio, quando si imitano i grandi, è quello di rassomigliare più che a illuminati cineasti, al nipotino che snocciola Leopardi prima del pranzo domenicale in famiglia perché la maestra Laura gli ha appena fatto imparare a memoria L’Infinito. Con tanto di nonni che gli battono le mani in odore di presta mancetta.
Sì, ma se uno non avesse mai visto Lanthimos e compagnia, questo America Latina potrebbe apprezzarlo, invece? Forse. A patto però che si rechi al cinema dopo aver trangugiato dodici Redbull e a seguito di un rigenerante riposino della durata di qualche giorno. Ai fan di una certa comicità (qui, purtroppo, smaccatamente involontaria) non sfuggirà certo la scena “a piedi scarzi” di fanelliana memoria. Oltre a questo, resta l’ottima interpretazione di Elio Germano, una specie di James McAvoy in Split di M. Night Shyamalan, diluita in un film purtroppo soporifero. Se vi sono piaciuti i precedenti lavori dei d’Innocenti dietro la macchina da presa, ovvero La terra dell’abbastanza e Favolacce, sappiate che il duo ora vi propone qualcosa di completamente diverso. E restando in tema di citazioni (parafrasate alla bisogna), facciamo scendere in campo Boris perché, una volta usciti dalla sala, ve lo assicuriamo, non resterà che da chiedersi: un altro cinema è possibile? Sì, ma si muore di noia. Peccato. Adesso corriamo a lucchettare il nostro profilo Instagram. Che non si sa mai…