Provo a fare una proposta ragionevole, a partire da qualcosa di estremamente irragionevole. Sono quasi quarant’anni che, quando l’estate volge al termine, scivolando verso l’autunno, in una zona desertica degli Stati Uniti va di scena quello che è una via di mezzo tra un anomalo Festival alternativo, non si sa bene Festival di cosa, e una sorta di esperimento sociologico, il Burning Man Festival. Nato dall’idea di tre amici, Larry Harvey, poi rimasto alla guida dell’iniziativa fino al 2017, John Law e Jerry James, dopo quattro stagioni tenute a Baker Beach, dalle parti di San Francisco, dal 1991 si tiene a Black Rock City, città che come capita per certi luoghi sommersi da laghi e corsi d’acqua, che vedono la luce per pochi giorni ogni tot anni, penso a Fabbriche di Fareggine, sul lago di Vagli, nasce e poi scompare nel giro di otto giorni, portando nel deserto del Black Rock, in Nevada, non troppo distante da Reno, qualcosa come circa settantamila persone, persone da tutto il mondo, e andando categoricamente a chiudere i battenti nel giorno del Labor Day.
L’idea dei tre amici, nel tempo sostituita da una sorta di comitato scientifico, era quella di creare una sorta di TAZ, per citare la creatura di Hakim Bey, una comunità radicale nella quale vigono leggi differenti da quelle vigenti nel resto degli Stati Uniti, non sono ammesse monete, non si possono usare cellulari o device, tutto deve avvenire tramite baratto (baratto, attenzione, non tramite quella truffa legalizzata che risponde al nome di Token, finta moneta sovrana nei nostri Festival e maxi-concerti, utile solo a fare creste clamorose sulla vendita di birre e panini) e comunque nello spirito della condivisione, non sono ammessi brand che vogliano pubblicizzare i propri prodotti e non c’è un cartellone con artisti di grido, tutto è atto a dar vita a un mondo ideale, certo utopico, libero e anticapitalistico, magari di quell’anticapitalismo un po’ peloso che trova asilo solo dopo aver sborsato quasi cinquecento euro di biglietto di ingresso.
Durante i giorni del Buring Man, che si chiude ogni anno con il rogo di un fantoccio gigantesco, di qui il nome, è tutto un proliferare di istallazioni artistiche più o meno futuristiche, una via di mezzo tra Mad Max e il famoso bar di Guerre Stellari, con la gente che si aggira per il deserto prevalentemente in bici o a cavallo di stralibianti trabiccoli inventati di sana pianta per l’occasione, tra statue e istallazioni costruite con neon e tubi Innocenti, indossando abiti spaziali più o meno coprenti, i Mutoids e le creature ideate da Jules Verne di scena all’Isola delle Macchine di Nantes come base da cui partire. Il tutto nello scenario affascinantissimo del deserto del Nevada, il bianco della sabbia così simile a neve, spesso sollevata dal vento (l’escursione termica tra giorno e notte arriva a volte anche a quaranta gradi di differenza, chi partecipa deve essere munito di idonea attrezzatura, l’organizzazione passa solo ghiaccio e caffè, per il resto ci si deve arrangiare), a contrastare con i look estremamente bizzarri dei partecipanti, molto spesso accompagnati da altrettanto bizzarri mezzi di trasporto inventati e a loro volta destinati a durare assai poco. Una sorta di città virtuale e temporanea, appunto, dove la gente vive in tenda, ovviamente, tra un dj set e una performance teatrale, un concertino o una esposizione d’arte, senza altro scopo di essere parte di un’esperienza unica, irripetibile nel mondo là fuori.
Un’isola anarchica dove uno vale davvero uno, purché quest’uno abbia ovviamente sborsato l’esoso obolo per partecipare, poco conta che l’uno sia un perfetto sconosciuto o un attore di Hollywood, un artista in cerca di fama o Jeff Bezos e Mark Zuckerberg. La TAZ cui facevo riferimento, evidentemente ispirazione dei tre fondatori, sta per Zone Temporeaneamente Autonome, cioè un luogo libero momentaneamente dal capitalismo, totalmente anarchico, figlio tanto del situazionismo di Deleuze e Guattari quanto dell’esperienza delle comuni dei pirati dei Caraibi (nulla a che vedere con Johnny Depp, per la cronaca), il testo che porta il medesimo titolo di Hakim Bey è un capisaldo della controcultura dell’ultima parte dello scorso millennio, vera e propria Bibbia, sempre che si possa parlare di Bibbia parlando di controcultura, del nomadismo psichico.
Ora, l’idea di Larry Harvey e soci, di Hakim Bey, di Deleuze e Guattari e di tanti altri prima di loro è quella di un’isola felice, libera dai legacci del capitalismo, una comune nella quale il rispetto e una convivenza solidale sia alla base del vivere sembra davvero lontana dalla contemporaneità e forse proprio per questo così tanto attrae. Qualcosa sì di utopistico, ma di ideale, cui guardare, magari non pensando al Burning Man, che è appunto un Festival, come a qualcosa cui ambire. Mettiamo il Burning Man con la sua allure cyberpunk e fascinossima da parte, e mettiamoci pure le teorie di chi ha contribuito con i propri scritti a pensarlo.
Sono da sempre attratto dall’ipotesi di una comune anarchica, dove le regole non siano necessariamente scritte, perché dettate dal rispetto reciproco, sono cresciuto leggendo i beatnik di Big Sur, ho iniziato a suonare pensando agli squat di Londra dell’epoca punk, ho iniziato a scrivere rifacendomi neanche troppo velatamente alla crew di Mirrorshades, come a suo tempo ha fatto notare il mio mentore Nanni Balestrini prefacendo il mio primo libro, normale questa mia fascinazione mai abbandonata negli anni. Del resto col passare degli anni ho messo su peso e i miei capelli ricci si sono fatti prima grigi e poi bianchi, il pensarmi come una sorta di Jerry Garcia che indiavolato accompagna gli Acid-Trip della compagnia dei Merry Pranksters di Ken Kesey a bordo del Furthur, lo scuolabus multicolore guidato da Neal Cassady che così bene Tom Wolfe ci ha saputo raccontare, la comune di Haight-Ashbury Street pronta a cogliere The Warlocks, futuri Grateful Dead, lì a Frisco, non mi viene affatto difficile. E io ho ancora tutte e dieci le dita delle mani.
Perché sto parlando di Burning Man e in qualche modo di altre situazioni non troppo dissimili avvenute nel tempo, tutte ascrivibili al mondo della controcultura, tutte, più o meno, entrate nell’immaginario di una generazione cresciuta nel disorientamento dei cambiamenti di fine secolo e fine millennio? Perché veniamo da un periodo che ci ha visto isolati come mai prima, certo supportati da quelle connessioni social che un tempo sarebbero state impensabili, ma comunque chiusi prevalentemente nel nostro bozzolo e perché credo potrebbe essere utile provare a unire i puntini e mettere a frutto immaginari e visioni con quello che l’oggi ci mette a disposizione. Il tutto senza dare agli strumenti che la contemporaneità ci ha fornito, quegli stessi strumenti che vengono di volta in volta indicati come ancore di salvezza (lo smart working, il poter stare connessi seppur lontani) o strumenti del demonio (la falsa verità dei social network, la lobotomia indotta cui ci autosottoponiamo quotidianamente, la bidimensionalità che gli schermi stanno portando nel nostro modo di rapportarci col mondo esterno e con i suoi abitanti, gli altri esseri umani) una valenza negativa, le TAZ di Hakim Bey erano isole piratesche che spesso trovavano il loro modo d’essere proprio nella rete, in quel metaverso o cyberspazio che dir si voglia che, sempre però gestite dagli uomini, vedi alla voce hacker, come il Neo di Matrix, o cowboy, alla Case di Neuromante.
Un balzo in avanti, o forse, vista la futuribilità, almeno estetica, delle situazioni raccontate, un balzo indietro, a oggi. Viviamo in un pianeta che abbiamo portato sull’orlo del collasso, abusandone fino all’implosione, alla catastrofe annunciata, all’apocalisse. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, seppure i nostri sguardi siano costantemente distratti da altro, diversivi neanche troppo spettacolari che quotidianamente occupano militarmente ogni anfratto al grido di “ci sono ben altri problemi”. Uniche variazioni sul tema gli strilli e i lai nel momento in cui, ciclicamente, la Natura ci presenta il conto, spesso pretendendo come acconto vite innocenti, distruggendo luoghi e vite. Le immagini degli scenari devastati della provincia di Ancona, il fango che copre strade e mattoni, l’acqua feroce che invade tutto, portando via storie familiari e spazzando possibilità future di una terra già recentemente tormentata dalle scosse del terremoto del 2016, rimandano a un immaginario post-nucleare, dove però la stringente realtà toglie il fiato, angoscia, divora. L’impressione è che anche stavolta a fianco dell’azione negligente dell’uomo, inteso come genere umano, arrogante padrone del mondo, un peso notevole abbia avuto stavolta l’assenza altrettanto negligente degli uomini preposti alla guida, intesi come amministratori e politici, niente di quel che andava fatto per prevenire la prevedibile resa dei conti portato a compimento, salvo poi gridare alla fatale catastrofe a beneficio di telecamera, il marroncino chiaro del fango che si asciuga al sole a fare da sfondo. Uno spettacolo desolante e doloroso, visto che quella terra è la mia terra, per me particolarmente struggente. Per questo non posso rimanere insensibile alle richieste di rimboccarsi le maniche che arrivano da quella regione martoriata, dai tanti artisti che lì sono rimasti a vivere, dagli amici che sotto la furia di quello che una narrazione stucchevole chiama maltempo, sia mai che si torni a parlare di emergenza climatica, ricorrendo magari a un vocabolario da film catastrofici hollywoodiano, quelle bombe d’acqua che sempre più spesso sentiamo colpiscono le nostre sponde. E allora, complice la sensazione neanche troppo remota che al momento in quella porzione delle Marche su cui il mortale mix di cataclisma climatico e assenza dello stato ha agito elevando all’ennesima potenza la propria furia distruttrice le regole non siano più valide, il caos laddove dovrebbero esserci regole e leggi dell’uomo, ecco che l’idea di mettere in campo una iniziativa che possa portare aiuti concreti e, al tempo stesso, provare a risollevare gli animi delle truppe, provando a tenere accesi i riflettori anche quando, fra poche ore, ci sarà qualche nuova distrazione a riempire le timeline di tutti i social. Prendiamo uno scuolabus, o in assenza di scuolabus direttamente un autobus di quelli che giacciono inerti nei depositi della Conerobus, dipingiamolo dei colori più accesi che la fantasia ci possa ispirare, lasciamo che i giovani e meno giovani artisti visivi della regione lo rendano un’opera d’arte ambulante, un Furthur che non dovrà ospitare gli acid-test di Ken Kesey, ma provviste e approvvigionamenti da portare per quelle strade invase dal fango, dove oggi la sabbia e il terriccio misto all’acqua e cotte dal sole stanno diventando cemento. A distribuirli cantautori e rocker della zona, penso ai fratelli Marino e Sandro Severini, alias la Gang, a Serena Abrami e i suoi Leda, a Hu, a Roberta Giallo, a La Complice, a Maria Antonietta, ai Little Piecese of Marmelade, a Beatrice Antolini, magari anche a Lighea e Baltimora, giornalisti e scrittori a bordo per dar risalto a questo incedere da carovana del Medichine Show, dove per una volta la magia non verrà usata per imbonire paesani boccaloni, non siamo mica il Jova Beach Party, evento che al Burning Man ha guardato con attenzione, ma per curare anime e ferite, col pane e con le rose. Qualcosa di concreto, un RisorgiMarche più agile e con molto meno impatto ambienta. Qualcosa di concreto, quindi, certo, come concreta sa sempre essere l’arte, ma anche visionaria e anarchica, perché in momenti tragici e disordinati come questi solo chi è capace di trovare il bello nel caos può provare a sperare.