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Wonder Woman,
anche al cinema il "girl power"
è noiosissimo

  • di Damiano Panattoni Damiano Panattoni

10 febbraio 2021

Wonder Woman, anche al cinema il "girl power" è noiosissimo
Tanta apparenza, poca sostanza. E allora una domanda: perché la saga DC Universe continua a non sfruttare i suoi punti di forza? Gal Gadot torna (in streaming) nei panni di Diana Prince per sconfiggere un Pedro Pascal in versione trumpiana. Il risultato? Da sbadiglio.

di Damiano Panattoni Damiano Panattoni

Finalmente! Dopo essere stato rimandato, rimandato e rimandato ancora, anche in Italia è arrivato Wonder Woman 1984, che sarebbe dovuto essere uno dei film di grido del maledetto 2020. Le sale – sappiamo fin troppo bene – sono chiuse e allora, questa volta, a Gal Gadot alias Diana Prince, è toccato il destino dello streaming, con la release del film fissata al 12 febbraio e disponibile sulle principali piattaforme (da Apple Tv a CHILI, da Rakuten a Sky Primafila e TIMVISION). Destino simile ma decisamente più fortunato nel resto del mondo, Europa esclusa. Negli States è stato rilasciato sia nei cinema (con un buon risultato, nonostante le restrizioni) che su HBO Max, mentre in Asia, dove le sale sono per lo più aperte, il bottino non è stato quello sperato.

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Wonder Woman 1984

Ma, al netto degli aspetti più industry, che sicuramente non aggiungono né tolgono nulla, ci poniamo una domanda che arriva pressoché al cinquantesimo minuto del film: perché, in casa DC Universe, si ostinano a non capire che non si può più realizzare un cinecomic in cui c'è solo apparenza senza sostanza? Ci avevamo sperato, dopo gli ottimi Shazam! e Birds of Prey. Ci avevamo sperato che la DC avesse imparato dagli errori fatti con Justice League, Batman v Superam e, in parte, proprio con il primo Wonder Woman. Infatti non basta portaci negli Anni Ottanta (e anche basta, gli Anni Ottanta!), non basta scherzare con i siparietti di Chris Pine e Krinste Wiig (che è sempre eccezionale, c'è da dire), non bastano le citazioni e le strizzate d'occhio di Patty Jenkins alla regia, e non basta enfatizzare il girl power della sua iconica protagonista. Serve la storia, servono le emozioni, serve un villain che rubi la scena con prepotenza e arroganza, mentre qui c'è un Pedro Pascal che ce la mette tutta per legarsi all'accostamento trumpiano dell'uomo d'affari sull'orlo del fallimento che gioca l'asso nella manica per salvarsi dal baratro.

Infatti, lo script, realizzato da Geoff Johns, David Callaham e dalla stessa Jenkins ci porta nella Washington DC del 1984: Wonder Woman è diventata solo Diana Prince e agisce in incognito, mentre lavora come archeologa alla Smithsonian Institute. Le cose cambiano quando si imbatte in uno strano idolo di pietra. È roba che scotta, tanto potente quanto pericolosa che, come spesso si dice, “sarebbe meglio non finisse nella mani sbagliate”. Ecco, Wonder Woman 1984 è, essenzialmente, questo: si insegue il manufatto bramato dal cattivone Maxwell Lord, si dibatte sull'uomo (pardon, la donna) dietro la maschera e si salva il mondo dall'ennesima minaccia. In mezzo, la metafora sull'egoismo smodato, che fa parte dei buoni quanto dei malvagi. Direte voi: i super eroi, le super eroine, servono proprio a questo, ad alimentare la speranza, a far prevalere la luce sopra alle tenebre. Certo, ma serve comunque profondità, cosa che purtroppo molti dei film DC non hanno.

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