Basta fregnacce. Questo mondo non mi renderà cattivo, la nuova serie di Zerocalcare su Netflix, è di una mestizia sconfinata. La storia rigira a vuoto su se stessa per sei stucchevolissime puntate troppo concentrate sull'ombelico dell'autore per riuscire a raccontare veramente qualcosa di interessante. Nonostante i nobili intenti, l'operazione fa acqua da tutte le parti e, quel che è peggio, annoia. Seguiamo Zero alle soglie dei 40 anni insieme a Secco e Sarah, già conosciuti nella precedente Strappare Lungo I Bordi, questa volta alle prese con un centro d'accoglienza contestato "dai nazisti" nella periferia romana. E anche con il ritorno di un vecchio amico dalla comunità. I temi sociali al fuoco sono forti, ma vengono cucinati così malamente che su Twitter il dibattito si è aperto solo su un'unica questione: davvero a Milano fanno pagare pure la panna sul gelato? Ego, autoindulgenza e fabiovolostici scappellamenti a destra (pardon, a sinistra) pseudo-introspettivi. Andiamo a indagare l'insostenibile pensantezza di Zerocalcare.
"Quanto è triste la sinistra. È triste e rende la gente triste". Così Nanni Moretti-Berlusconi verso il finale de Il Caimano (che val sempre la pena di rivedere, ora su Prime Video). E in effetti sembra non esserci miglior epitaffio-recensione per Questo mondo non mi renderà cattivo. Con tutto l'affetto che possiamo provare per gli antieroi e per gli svantaggiati, il protagonista è davvero il re dell'accolo. Lo era anche nella serie precedente, lo è nell'intera produzione di Zerocalcare. Ma qui questo tratto è sonoramente implementato, come fosse una mossa speciale a Tekken. Dà fastidio.
Dà fastidio come la paralisi di tutti i personaggi coinvolti. Il messaggio principale è di un vittimismo ferale (ma molto in linea con gli sciagurati tempi in cui viviamo): il mondo è cattivo, le cose succedono, le persone spariscono dalle nostre vite e noi possiamo solo assistere impotenti allo scempio, sperando di avere intorno qualcuno a cui accollarci. E restando immobilizzati, tipo balena spiaggiata, nel caso in cui le terga con le mani dovessimo, invece, trovarcele da soli. Anzi, la serie sembra voler sviluppare nello spettatore l'idea che "farcela" sia quasi sbagliato, almeno a livello morale. Quando Sarah ottiene una (mezza) promozione dopo dieci anni di precariato, Zero le fa subito notare come in questo modo sia passata dal campionato dei "rosiconi frustrati" a quello degli "sciacalli che godono in mezzo alle macerie" perché non tutti hanno lavoro, quindi sarebbe da egoisti senza cuore e coscienza sociale gioire per averne ottenuto uno (stabile, per di più). Intanto, però, Zero un impiego lo ha eccome. Fa il fumettista alla seconda serie Netflix. E daje un po'.
Il senso di colpa sinistrorso è anche peggio di quello cattolico. E permea ogni pensiero dei personaggi, soprattutto del protagonista, intrappolandoli in un immobolismo a cui riescono a contrapporre solo immensi pippotti introspettivi (amatissimi dai social) e impotenza sparsa. Quasi mai un'azione concreta che non sia a strascico. Il mondo sarà pure cattivo, lo è, ma questi non s'aiutano. E in qualche modo, in un modo certamente molto consolatorio e autoindulgente, è come se invitassero chi guarda a non aiutarsi. Tanto, appunto, il mondo è cattivo, non c'è niente da fare, come fai sbagli.
E a non sbagliare Zerocalcare tiene moltissimo. Pure troppo. Altrimenti non si spiegano i tre quarti di minutaggio della prima puntata spesi a domandarsi se si capisce quando parla con la sua leggerissima inflessione romanesca. Glielo fa notare Sarah, glielo ricorda l'Armadillo-Mastandrea con tanto di titoli di giornale in full screen. Praticamente l'unica critica mossa a Zerocalcare per Strappare Lungo i Bordi fu quella dell'esigenza dei sottotitoli per chi non fosse nato nella capitale e volesse seguire la serie. La stessa, cambiando provincialismo, che è sempre stata fatta a Gomorra. Lì, però, non abbiamo mai visto Ciro l'Immortale andare in paranoia per l'accento. E nemmeno per le parole da utilizzare. Gli spiegoni sui tecnicismi allungano il brodo senza però far procedere la trama di un millimetro. Di puntata in puntata, veniamo a sapere i perché di ogni scelta stilistico-espressiva mostrata e potenzialmente passibile di polemiche o rimbrotti. È lo stesso Zero a illustrarci tutto, con dovizia. Va da sé che da un punto di vista narrativo, sia un autogol. Un autogol dietro l'altro. Come spiegare una battuta subito dopo averla fatta. Però in modo pedantissimo (e paraculo).
Se alla fine di Strappare Lungo i Bordi abbiamo pianto dalla commozione, una volta giunti al termine di Questo mondo non mi renderà cattivo, ci ritroviamo coi pugni chiusi in segno di scocciata frustrazione. Che non nasce dai motivi per cui la serie vorrebbe farcela provare. Conoscevamo già prima di iniziare i tempi bui che stiamo attraversando, magari ci sarebbe piaciuto evadere proprio da lì. Oppure farci coinvolgere da una storia di vera denuncia sociale che portasse a riflettere, indignarci, dibattere. Invece, in fin dei conti, questa serie vale solo come una caccia al tartufo di Madeleine anni Novanta, azzoppata da sei ore di sconfortante tristezza.
Un inno alla mediocrità in sei atti che, alle volte, vi farà sentire coccolati e forse perfino compresi. Falliti e scontenti con la sola consolazione del gelato alle soglie dei quaranta, come di qualunque altra età, è un'ottica sconfitta che ogni individuo con un briciolo di amor proprio, però, non dovrebbe accettare di accollarsi. Né ora né mai. Zero. In direzione ostinata e contraria rispetto alla lamentatio coatta, se davvero vi ritrovate nella serie, è forse giunta l'ora di alzare il culo e andare a fare qualcosa della vostra vita. Il resto sono solo accomodanti fregnacce. Ma la panna sul gelato da voi a quanto la fanno?