Incontriamo Raffaele Caldarelli, per tutti Lello, nella hall del 25hours Hotel di Firenze, a due passi da Piazza Santa Maria Novella. L’ambiente è curato e contemporaneo, ma non per questo opulento. Lello è seduto su di un divano, parla a bassa voce, ha un tono morbido, è vestito di nero. Con Antony Morato - di cui è fondatore, presidente e direttore artistico - ha appena lanciato The Sound of Unity, un contest per DJ e produttori emergenti. Dice che dopo aver ricevuto tanto è fondamentale provare a restituire, fare qualcosa per cambiare anche solo un po’ la storia delle persone. In una parola, ispirare. Per The Sound of Unity, progetto gestito da Lele Sacchi, sono già aperte le iscrizioni, mentre i talent ambassador scelti per raccontare l’iniziativa sono Andrea Olive e Francesco Tristano. Date un’occhiata.
Al netto di questo, intervistare Lello Caldarelli significa confrontarsi con qualcuno a cui piace riflettere, uno che molto probabilmente passa almeno un paio d’ore al giorno a porsi le domande giuste. Le sue risposte sono attente, misurate, mai banali. Così scopriamo che Antony Morato era il nome di una pizzeria nel New Jersey, che Lello Caldarelli passa quarantacinque minuti al giorno nel traffico per vedere il mare e, soprattutto, che a portare Giorgio Armani a ragionare come uno stilista anche a 89 anni è l’anima: ogni sei mesi si ricomincia da zero. Un assunto, questo, che diventa anche un testimone fondamentale della passione di chi in questo ambiente ci vive. Se non ti piacesse davvero, ripartire da capo ogni sei mesi ti farebbe impazzire.
Chi è Lello Caldarelli? Perché hai deciso di fare questo mestiere?
“È una domanda complessa, anche se la risposta può essere semplice: sono nato in un contesto in cui si respirava moda: mio nonno vendeva tessuti, mio padre li ha cominciati a trasformare… sarebbe identificabile, il mio, come un percorso quasi obbligato. Però devo essere onesto, io l’ho fatto nella mia piena volontà. È vero che il contesto mi ha dato una mano, perché se nasci sulle montagne puoi diventare un bravo sciatore, cosa più difficile se arrivi da Siracusa. Resta il fatto però che il mondo della moda mi ha sempre affascinato, tanto che questo a ben vedere è il mio terzo progetto: ho cominciato in modo diverso, con qualche passo nell’azienda di famiglia per farmi le ossa. Poi ho cominciato a fare produzione per gli altri. Mi occupavo di prodotto, fonti produttive, timing, operation… dopo circa sette anni mi è venuta voglia di fare qualcosa di mio, perché la sensazione era un po’ quella di coltivare l’orticello di un altro”.
È così che nasce Antony Morato?
“Io ho sempre ragionato come un bambino di sei anni e questo mi ha aiutato molto nella mia vita: Quando ho cominciato avevo 25 anni, quindi nel pieno della maturità di un cliente uomo che si approccia al mondo della moda. Così ho cominciato a pensare alle mie esigenze, allora ho capito che mancava qualcosa, nel segmento medio, che fosse un pochettino più fashion e meno casual. Ho lavorato sulla cultura del tailoring, della confezione, dell’abito. Ma non inteso come abito da gran gala, una cosa più leggera. Ho inventato un posizionamento: un prodotto che già esiste in un segmento che non c’è”.
Perché proprio Antony Morato? Insomma, come hai scelto questo nome?
“Io mi chiamo Raffaele Caldarelli, avevo bisogno di un nickname. Volevo un nome e un cognome e ho deciso di cercarlo dove ce n’erano tanti, così sempre pensando come un bambino ho cercato nell’elenco telefonico. All’epoca un mio carissimo amico stava facendo una consulenza a un’azienda italiana di logistica nel New Jersey. Ci sentimmo per altre cose e gli chiesi un favore: portami un elenco telefonico, in America ne trovi uno sotto ad ogni telefono pubblico. Cominciando a sfogliarlo, tra miliardi di nomi, trovai questa Pizzeria Morato by Antony, senza l’acca. Così chiamo il mio professore d’inglese delle superiori e lui mi spiega che era un italoamericano, gli irlandesi erano Anthony. E poi Morato… ispanico, italoamericano, sei lettere il nome e sei il cognome… l’ho preso. Quando lo feci vedere a un po’ di gente fece cagare a tutti, come per tutti i marchi all’inizio, però a me piaceva, aveva tutte le caratteristiche giuste. Uno dei miei rimorsi più grandi è di aver perso quell’elenco telefonico”.
Sei nato nella provincia di Napoli, vivi a Posillipo. Quanto ti regala questa città?
“Napoli è una fonte d’ispirazione continua. Lo è nel quotidiano eh, non nelle cose particolari: se tu sei predisposto alla creatività ti basta stare seduto, ti cade addosso in qualsiasi angolo, devi solo avere gli occhi aperti. Siamo un popolo di creativi, per il semplice fatto che sono quasi tremila anni che ci arrabattiamo a destra e sinistra. Poi oggi la città è cambiata moltissimo, per carità, però è sempre stata piena di cultura, perché Napoli è un luogo in cui la cultura e la scoperta sono in ogni granello di polvere. È un posto inesauribile da questo punto di vista. Dal centro storico che è un mondo a sé fino alla periferia, che è dove nascono i grandi cambiamenti. Perché la creatività dell’uomo si aguzza quando è in difficoltà, nella tua comfort zone non sei creativo o rivoluzionario. Per cambiare le cose devi anche cercare la difficoltà, alzare i tuoi obiettivi e cercare situazioni che ti portano a fare di più. Poi lo devi fare in modo sano, perché io non sono nemmeno molto allineato a questa sorta di ansia contemporanea del doversi assolutamente imporre o realizzare. Secondo me la realizzazione non è una questione economica o di rispetto degli altri, è propria. Se tu ti senti realizzato vuol dire che stai facendo quello che ti piace. Poi se a qualcuno va bene meglio così, altrimenti sticazzi”.
Con Antony Morato hai raggiunto risultati importanti. Qual è l’a fiamma che ancora ti accende?
“A me piacciono tante cose. Ovviamente mi piace fare il mio lavoro, per questo lo faccio ancora. Se un giorno si cominciasse a manifestare dentro di me un disagio nel fare il mio lavoro, anche nella gestione delle difficoltà quotidiane, probabilmente smetterei. Il compromesso, nella vita, è che devi avere sempre diversi contenitori su cui affacciarti, anche perché le difficoltà alla fine ti fanno godere i momenti di pace. Ah, poi impazzisco quando vedo qualcuno con un mio capo addosso: quella è la vera soddisfazione per me, mi restituisce tutto. Mi emoziono”.
Te ne ricordi una in particolare?
“Eh si, certo. Ero alle Maldive con i miei figli e mia moglie, prima del covid, in un’isola che sarà stata di trecento metri per due chilometri. Saremmo stati in cento, pochissimi. A colazione vedo questo ragazzo asiatico che a un certo punto si gira e ha addosso la mia maglietta. È stato un momento di soddisfazione enorme, ha ripagato tutto l’anno di lavoro”.
Dai l’impressione di essere una persona estremamente riflessiva. Come gestisci il tuo successo?
“Dal mio punto di vista - strettamente personale - per gestire il successo non lo devi cagare. Se cominci a pensare anche solo al concetto di successo diventa un problema. Il successo è un insieme di fallimenti che magari arrivano a un risultato positivo, da affrontare sempre con leggerezza. Definire il mio un successo mi sembra eccessivo, però l’unica cosa a cui sto davvero attento è separare la vita personale da quella professionale. Io sto molto bene con amici che sono fuori da questo settore, perché a me piace il mio lavoro ma non ne posso parlare continuamente, altrimenti diventa pesante. Io il sabato e la domenica stacco e il lunedì arrivo in ufficio carico, voglio parlare di moda, dico ‘portatemi dei problemi’. Ma se nel weekend continuassi a guardare le mail e pensare ai problemi il lunedì arriverei già in burnout. È l’equilibrio a fare tutto. Le persone di grande successo spesso vengono invidiate, io invcece provo a mettermi nei loro panni e immagino quanto sia dura stare lì”.
Per la pressione?
“Beh, la cosa più difficile del successo è la riconferma: se fai qualcosa di buono in quel momento te la godi, ti becchi la pacca sulla spalla. Ma il giorno dopo è dovuto. Questo non bisogna mai dimenticarlo, bisogna stare molto attenti a questa cosa. Qualsiasi traguardo tu abbia, il giorno in cui lo raggiungi diventa dovuto”.
Come gestisci questa cosa?
“Ho la fortuna di lavorare in un campo, quello della moda, in cui ogni sei mesi si ricomincia da zero. Questa è l’unica cosa che tiene vivi e lucidi fino a ottanta’anni e oltre dei geni come Giorgio Armani. Ogni sei mesi si comincia da zero e puoi essere chi ti pare”.
Raccontaci la tua idea sui prossimi sei mesi, allora.
“Stiamo cercando di fare un lavoro articolato, vogliamo portare le persone più vicine al nostro marchio raccontando storie affini a noi, ad Antony Morato. Penso all’arte contemporanea, alla musica, al viaggio. Sono, questi, tre pilastri molto vicini alla moda: l’arte l’ha sempre contaminata e la musica ne è sempre stata coinvolta. Poi il viaggio e la socialità fanno sì che la moda serva a qualcosa. La moda è la nostra armatura, ma ha un senso se c’è socialità. Quando si è fermata la socialità la moda ha smesso di avere un senso”.
Così arriviamo a The Sound of Unity.
“Certo. È il nostro primo contest fatto nel mondo della musica, in cui cerchiamo di avvicinare tutta la community della musica al brand, poi far capire alle persone che ci seguono che la musica è parte di noi stessi. Soprattutto, attraverso questo contest, stiamo cercando di restituire a qualcuno quel momento in cui la coincidenza giusta e l’opportunità corretta ti danno modo di costruire un piccolo successo, un po’ come è capitato a noi. Ora puntiamo a trovare qualche produttore, DJ giovane, che grazie al nostro aiuto possa realizzarsi e cominciare una carriera vincente in questo settore. Alla fine abbiamo ottenuto tanto, bisogna saper ridare. Avere è bellissimo, ma dare è cinquanta volte meglio”.