Per entrare in città sei praticamente costretto all’auto elettrica, ma se compri una maglietta fatta in Vietnam, pagandola 20 euro per metterla tre volte, nessuno si infastidisce. Quella della moda, o meglio del tessile, è la terza industria più inquinante del pianeta ma continua ad esserlo in silenzio. Le problematiche su cui si basa questo sistema sono molte, d’altronde un’infinità di parametri girano attorno alla sostenibilità: emissioni per esempio, ma anche agenti chimici impiegati per le colorazioni e un consumo di acqua elevatissimo, specialmente per quanto riguarda il cotone. C’è poi un problema che si chiama fast fashion che si sintetizza così: anche se la quota di reddito delle persone destinata alla spesa in vestiti si è abbassata rispetto a una volta, il numero di capi nell’armadio sono molti di più. Un po’ come mangiare il pesce, lo si fa molto più spesso ma in all you can eat in cui vendono spazzatura. E tutto è dominato da prezzi accessibili.
"Abbiamo messo dei denim in una bara e li abbiamo sepolti"
Per garantirli, le aziende lavorano con il just in time generando avanzi produttivi che, spesso e volentieri, finiscono in discarica, nel caso dell’abbigliamento per un totale di 8 miliardi di capi l’anno. Inutile dire poi che, il più delle volte, si tratta di capi prodotti tramite lo sfruttamento della manodopera in paesi del terzo mondo. Quando, ironia della sorte, questi paesi ricevono vestiti di seconda o terza mano riciclati dall’occidente, semplicemente non sanno come gestirli perché ne hanno in quantità spropositate.
Le soluzioni sono diverse. Sperare che l’opinione pubblica si svegli dal letargo è sicuramente tra queste. Aspettare che lo faccia l’Unione Europea, con un’etichetta a certificare il prodotto - come funziona, ad esempio, nel settore alimentare - è un’altra. La terza è informarsi, acquistare le cose giuste, parlarne. Noi siamo partiti da qui: come faccio a sapere che sto acquistando un capo per la sua qualità e non soltanto per la marca? Quanto devo spendere? Lo abbiamo chiesto a Candiani Denim, brand scelto dalle Nazioni Unite per tracciare le linee guida della sostenibilità nel mondo della moda e del footwear, in occasione del lancio del tessuto Tencel Limited Edition con Canapa e Coreva. Abbiamo incontrato le persone, parlato con loro e con i rappresentanti di Lenzing, partner che fornisce Candiani del Tencel, ingrediente pregiato ed ecologico per la realizzazione dei tessuti.
Il tutto al nuovo Coreva Store di Corso di Porta Ticinese 22, a Milano. Nella boutique, che ha un angolo per la riparazione degli abiti, ci accolgono Simon Giuliani, Direttore Marketing di Candiani Denim, e Julia Ulrich Product Manager Lyocell. Ci chiudiamo in una stanza sul retro, quatto sedie e un grosso tavolo di vetro. Parte il registratore.
Entrambe le aziende sono nate nel 1938 in un piccolo paese circondato dalla natura. Partiamo da questo.
“È vero, ed è bellissimo - risponde Simon - Candiani è nata a Robecchetto con Induno a 45Km da Milano. La famiglia viene da lì, è alla quarta generazione e tutta la produzione ancora lì. La cosa veramente speciale è che nel 1974 quell’area è stata dichiarata area naturale protetta (la prima in Italia, ndr.) il Parco del Ticino. Così nel 1974 ci dissero che c’erano due scelte: adattare gli standard o andarsene. Abbiamo scelto la prima, cambiando il modo di fare le cose. E non si tratta di un investimento una tantum, ti viene richiesto di aggiornare la produzione ogni anno. L’enorme lavoro che è seguito non era mai stato visto come un valore aggiunto al prodotto, né dai marchi a cui vendevamo né tantomeno dai consumatori finali. Anzi, al tempo i proprietari si lamentavano spesso, chiedendosi perché dovevano spendere di più per lo stesso risultato. Circa 10 anni fa abbiamo capito che era una nostra unicità, perché le altre produzioni erano state dislocate in Asia”.
Qual è il più grande problema nel mondo della moda?
“La sovrapproduzione. Così come l’impatto dei tessuti sull’ambiente, perché spesso i capi sintetici o trattati con prodotti tossici e inquinanti. Sapevamo che questo, prima o poi, sarebbe arrivato all’opinione pubblica, era l’elefante nella stanza. Quando è successo, direi quattro anni fa, avevamo già una grande credibilità”. Julia aggiunge che tra i due marchi, Candiani e Lenzing, c’è grande sinergia: “La nostra era un’azienda cartiera, usavamo l’acqua del fiume per la produzione, un fiume che finisce in uno dei laghi più belli d’Austria. Anche a noi dissero che avremmo dovuto soddisfare standard elevati e ci siamo mossi in quella direzione”.
"Fare un tessuto è come scegliere ingredienti in cucina: vuoi la mozzarella, quella di bufala o magari quella di Battipaglia?"
Come è nata la vostra collaborazione?
“Direi che erano le tre di mattina, in un club. Quindi tanto tempo fa (ride, ndr). Più seriamente, Candiani ha il privilegio di collaborare con i migliori per mantenere standard elevati. Ogni ingrediente ci fa lavorare con aziende in prima linea. Fare un tessuto denim è come scegliere degli ingredienti in cucina: vuoi la mozzarella, vuoi quella di bufala o magari vuoi quella di Battipaglia? È la stessa cosa con il cotone e le fibre artificiali, che sono fibre fatte da esseri umani ma che vengono da ingredienti naturali, nel caso di Lenzing - spesso - legno”.
Quanto siamo lontani, in Europa, dal fare qualcosa di rilevante per cambiare l’industria? Nel mondo dell’auto la rivoluzione è già in atto, per l’edilizia anche.
“Finché la moda sarà un segmento guidato dal prezzo, la transizione sarà molto lenta. I marchi devono ripensare il loro lavoro. Quello che senti più spesso dai brand che si spostano verso un modo di lavorare più sostenibile è ‘stiamo lavorando con cotone organico’. Va benissimo, ma è solo un piccolo passo. Noi siamo stati abbastanza bravi e fortunati da essere scelti per far parte di un gruppo all’interno dell’ONU in cui abbiamo riscritto le linee guida per moda e footwear. Tre anni di lavoro a Ginevra, un processo enorme, ma da un anno queste linee guida vengono presentate ai membri dell’ONU. Le linee guida però sono un conto, le leggi un altro e le stiamo aspettando tutti: alcuni prodotti saranno permessi e altri no, i marchi dovranno accettarlo. Così come certe pratiche, come la responsabilità di quello che vendi. Cosa succede dopo che hai venduto una maglietta? Te la riprendi, lasci che inquini? Oltretutto verrà tassata la sovrapproduzione: produci 100.000 vestiti e ne vendi 70.000? Sugli altri 30.000 paghi una tassa. Quello che possiamo fare noi, Candiani e Lenzing, è dare solo il meglio. Qualcosa che compri per lo stile ma con un tessuto, il Coreva, che è 100% compostabile. Dietro c’è tanta ricerca e tecnologia. Il che ti permette di avere un prodotto, come dire… same same, but different”.
Se compro una Ferrari so perché la pago 300.000 euro: posso vedere, sentire, provare prestazioni. Con i vestiti non è così, perché magari sto solo pagando il brand e non la qualità. Come si combatte questa cosa?
“È esattamente così. C’è il pantalone da 180 euro come quello da 35. E c’è un’opportunità, che è quella di spiegare al tuo cliente perché dovrebbe spendere di più per comprare i tuoi vestiti. Se il marchio da 180 euro non è in grado di farlo beh, meglio comprare a 35. Non è una campagna con Justin Bieber a motivare il prezzo di un prodotto, perché i brand di fast fashion sono in gradi di fare un capo esteticamente identico a un decimo del prezzo. Oggi affascinare non è abbastanza, devi avere delle basi solide. Quando compri una Ferrari vuoi sapere tutto di quella macchina, provarla, capire. Penso che chi acquista debba sapere cosa compra”.
Spesso però non è semplice capire se il prodotto che hai davanti è di qualità o meno.
“È la storia della mia vita, e non è facile perché lo scopri solo col tempo. Ed è come la macchina, lo sai con gli anni. Devi chiedere, capire come mantenere bene i capi. Dieci anni fa abbiamo cominciato a spiegare che quando compri un metro di tessuto da noi non compri il tessuto, anche tutta la conoscenza che lo rende diverso. E in seguito, proprio per questo, abbiamo aperto due negozi qui a Milano. Uno è Candiani Custom, dove costruiamo a partire da una bozza, un disegno. E poi c’è Coreva, qui”.
È vero che avete messo dei jeans sotto terra per capire come reagiscono alla natura?
“Si, è un po’ macabro da dire ma abbiamo messo dei denim in una bara durante la pandemia, li abbiamo proprio sepolti. Una normativa, la EN 1342, dice che per essere biodegradabile un prodotto deve degradarsi nel giro di sei mesi. Questo ha funzionato in laboratorio, sono bastati quattro mesi e mezzo. A quel punto però devi fare un esame dei resti per capire se sono tossici. Dopodiché c’è l’esame della materia compostabile, ovvero capire se quel materiale riduce, non impatta o favorisce la crescita di piante. Se aiuta è un fertilizzante. Noi abbiamo passato tutti questi test, anche se fuori dal laboratorio ci sono voluti più di sei mesi perché dipende dalle stagioni: al freddo ci sono meno microorganismi a mangiare i tessuti. Ed è stato come vincere la Champions League, ci abbiamo investito 5 milioni e nessuno ti spiegava come fare”. Anche in Lenzing, in qualche modo, hanno fatto un esperimento simile: “Noi, con l’Università di San Diego, abbiamo portato le nostre fibre nell’oceano, così da capire il loro livello di biodegradabilità. Sapere come si comportano questi vestiti nell’oceano è importante, perché ogni volta che lavi i tuoi vestiti alcune fibre si disperdono e finiscono in acqua. Ed è il motivo per cui ogni mese ci mangiamo abbastanza plastica al mese da farci una carta di credito”.
Greenwashing nel fashion. Cosa ne pensate?
“Questa cosa della sostenibilità è diventata importante di colpo e l’errore che hanno commesso molti marchi è affrontarla come un trend, come qualcosa da raccontare e non da fare. Hanno scelto la strada più veloce e gli è tornato tutto addosso. Ora stanno cercando di pensare le cose diversamente”.
Cosa pensate del vintage? Penso a Vinted e a piattaforme simili. È solo business, una fregatura, o funziona?
“Difficile da dire. È un modo per migliorare le cose però, perché il 73% dei vestiti usati finiscono in una discarica. Ogni cosa a cui dai una seconda vita è un bel passo avanti. Queste piattaforme, soprattutto, hanno il grande pregio di mostrarti come va a finire il prodotto, come si evolve negli anni. E generano una consapevolezza sui marchi”.
Ci sono due ostacoli quando vuoi vendere cose di qualità: il primo, le persone che purtroppo non possono permettersi di spendere. L’altro, invece, le persone che potrebbero ma non hanno nessun interesse nel farlo. Qual è la vostra risposta?
“Educare, educare, educare - risponde Julia - È triste che ci sia chi non può permetterselo, ma è ancora più triste pensare che c’è chi non ha interesse nel farlo. Le informazioni là fuori ci sono, non conoscere la situazione è un peccato". Simon aggiunge che: "Da quando abbiamo queste due boutique ci arrivano molti feedback dai nostri clienti. Cerchiamo di dare sempre tutte le informazioni, ma non è facile. Però bisogna partire dal fatto che la sostenibilità non dev’essere costosa. Dipende da molti fattori, specialmente dal margine che vuoi avere e dai tuoi canali di distribuzione. Se hai un’azienda convenzionale devi passare per molte fasi e spendere molto. Se arrivi direttamente al consumatore, che è una cosa sempre più comune negli ultimi tempi, puoi fare meglio. Ma alla fine è qui che i brand devono ripensare le cose e farlo sul serio, nel profondo”.