Passo una decina di giorni a contorcermi. Non ci vorrei andare alle gare perché è costoso, scomodo ed è difficile uscirne con qualcosa di buono che giustifichi lo sforzo. Come se non bastasse questo pensierino riesco a produrlo come se l’idea di andare alle corse non fosse stata mia. La verità è che sono frustrato, perché nel frattempo c’è il giornale a cui lavorare e un’aria piuttosto tesa a casa: se non vuoi pagare per il tuo egoismo dovresti vivere da solo. Sta di fatto che un paio di giorni prima di partire mi ritrovo in una situazione fuori norma, roba buona per Netflix che a distanza di un paio di mesi è diventata il caso del giorno su quotidiani e telegiornali. Avvenimenti di questo genere nascono sempre con una telefonata del direttore di MOW, Moreno Pisto: “Oh, che fai domani?”. Da qui si apre un ventaglio di possibilità comprendente pedinamenti, incursioni in locali notturni, gruppi estremisti, interviste rubate, gossip d’assalto. Seguire la MotoGP a confronto è una barzelletta: non ti ritrovi alle tre di notte, in aperta campagna e senza un mezzo di trasporto, ad aspettare un pregiudicato per sottrargli una dichiarazione da spedire in qualche studio televisivo per la trasmissione del giorno seguente. Nonostante questo adoro Moreno Pisto.
È un uomo capace di fotterti in maniera sistematica e, al contempo, di non metterci mai l’intenzione, sono ormai convinto che per lui sia una questione d’amore: amore per sé stesso, per la scrittura, per il sangue, per il risultato. È guidato dalla curiosità, dalla ricerca del non visto e da una gran voglia di andare oltre, accompagnata però dall’ottimismo di chi è convinto di poter tornare indietro. E poi non è come gli istruttori di nuoto, pessima razza, che ti ordinano un numero spropositato di vasche stando in ciabatte a bordo piscina con le mani dietro la schiena. Il bastardo queste cose le fa meglio e più spesso, sacrificandosi in prima persona e rimestando continuamente nel torbido: tira, non spinge. E io da uno così accetto di essere fottuto. La prima volta: ti va di andare a Massa Carrara a intervistare Nicola Franzoni? È l’agitatore no-vax che fa comizi su Facebook dalla sua Maserati. Gli chiedo perché io, mi dice che sono l’uomo giusto. Non mi dice, invece, che l’uomo giusto è solo quello che non fa abbastanza domande da rifiutare. L’intervista non era concordata, non c’era un contatto, il servizio andava girato in giornata e spedito in tempo per la puntata di Non è L’Arena delle 21. Ecco, quel servizio è uscito ed è stato un bel momento nonostante il rischio di finire in un cassonetto con le gambe piegate a fisarmonica. Moreno Pisto è questo, ti indica una gemma in un lago di merda e ti propone di andarla a prendere bendato. Senza cazzeggiare Co’. Il Gól, visualizza il gól, senza pietà. Volete provare a fare questo mestiere? Vi auguro di trovarvi davanti uno così, che prima apre la porta in mutande e poi chiede chi è. Stavolta ha organizzato un incontro con Fabrizio Corona, al quale sono state proposte alcune indiscrezioni su Matteo Messina Denaro da un politico di Mazara del Vallo. Il mio compito: copiare l’agenda di MMD e il piano di cattura dei ROS senza farmi notare da quest’uomo venuto dalla Sicilia con l’idea di venderci le informazioni. È un lavoro in cui devi controllare ansia e pressione, sembrare naturale e sparare la tua cartuccia al momento giusto mentre vivi un piccolo film. Fabrizio lo conoscevo già, l’anno prima ero andato a trovarlo a casa sempre per una di queste tarantelle durante la sua residenza ai domiciliari. Moreno era in ritardo di un’ora e così ci siamo trovati io, Fabrizio Corona, suo figlio Carlos e la donna di servizio. C’è la finale di Coppa Italia, Inter-Juventus. Appena arrivo nel suo appartamento, un bell’open space in centro a Milano, Corona mi offre una Corona. Quando ti vede, chiunque tu sia, ti fa sempre qualche complimento: veloce, preciso, senza darci troppo peso. È un mentalista sotto steroidi, se pensate sia solo uno squilibrato che lancia intimo dal balcone vi sbagliate di grosso: è tra i più bravi nel suo lavoro, nonché l’ennesima conferma del fatto che non puoi essere un ottimo giornalista e allo stesso tempo una bella persona.
Quella sera ho visto la partita - vinta dall’Inter - mentre Fabrizio si faceva coccolare da una massaggiatrice asiatica, nudo nel salotto di casa sua, parlando al vivavoce con Mario Balotelli. Ecco, Moreno Pisto è un catalizzatore di queste situazioni moderatamente rischiose. Durante il lavoro su Messina Denaro viene anche il momento in cui Corona mi offre un lavoro: “Possiamo assumerlo?”, chiede a Moreno, non a me. Lui gli risponde che quest’anno ho da fare questa cosa della MotoGP, che è importante. Risate. Penso a quanto potrei durare al servizio di Mr. Corona prima di fare una fine drammatica.
Qualche mese prima, su di un matrimoniale in un appartamento affittato a Sanremo per il festival, sdraiati come Raimondo e Sandra, ho parlato per la prima volta a Moreno di questo progetto con una parvenza di serietà. Ragiono bene sulle parole perché voglio sembrare determinato ma tranquillo, eppure mi esce così: “Mi servirebbe un aumento chef, voglio andare alle gare. Dormo anche in macchina, non mi frega un cazzo. Ora però vedo la porta davanti a me e la devo aprire, non posso tornare indietro”. Lui ci pensa un po’, c’è un gran silenzio, la luce è spenta. Poi finalmente parla: “Boia, sei un selvaggio. Fammi parlare con l'editore”.
Così sto uscendo di casa alle 5:20, trascinandomi verso la stazione dei treni per prendere un regionale diretto a Bologna dove mi incontrerò con Francesco, amico di una vita, che ho coinvolto in questo viaggio a Le Mans assieme a Patrizio, altro grande amico. Questi due signori sono i miei testimoni di nozze. Mentre esco di casa penso ancora la stessa cosa che mi saetta in mente ogni volta: ‘Cazzo, sta per cominciare’. Odio tutto il resto, ma so che nel momento in cui partirò con il vento nella schiena la fame mi farà camminare. Forse capisci di aver trovato la tua strada quando, semplicemente, non puoi fare a meno di percorrerla, a prescindere da ciò che ti si para davanti. Forse ci sto solo pensando troppo.
A Le Mans ci ero già stato per i grand deballage, le fiere dell’antiquariato, assieme a Francesco che questa roba la fa di mestiere: tornammo da lì con una partita di crocifissi, un paio di mappamondi, quadri, vecchi orologi d’oro e altre cose così. Per fare l’antiquario non devi aver studiato, devi averlo dentro perché è un gioco di seduzione a volte scorretta, altre becera e a tratti invece sontuosa, sempre e comunque istintiva però. Forse è per questo che Francis impiega buona parte del suo tempo libero con le donne: per lui è come lavorare, il tipo di sforzo mentale è lo stesso. Sta di fatto che quello dell’antiquario è un mestiere pulp e, nondimeno, tra i pochissimi nel ventunesimo secolo che si pratica con una lente d’ingrandimento in tasca. Lui esercita parlando in dialetto marchigiano coi francesi, la paglia in bocca e un’invidiabile faccia di merda: vuoi ottocento per questo? Te ne offro sessanta. Ho smesso di dirgli che stava insultando il suo interlocutore quando, dopo quaranta minuti di contrattazione, si è portato a casa un grosso quadro del settecento a un decimo della cifra richiesta. La mia proposta: prendiamo il tuo camper, andiamo alle gare e poi passiamo a fare acquisti a Chartres e Le Mans, le date coincidono. Gli antiquari comprano arte italiana in Francia per rivenderla da noi, dove il mercato chiaramente ha una risposta diversa.
Patrizio invece, Pelly per chiunque lo conosca, è un viaggiatore di professione, ci ha raggiunti da Oslo e partirà per Eindhoven finita la corsa. Trattasi di un personaggio clamoroso soprattutto considerando che con il carisma che si ritrova - come sceglie le parole, il suo approccio alle discussioni, la leggerezza, l’occhio analitico - potrebbe fare qualunque cosa, eppure non te lo fa mai pesare. È finito anche in un videogioco, perché se lo conosci e fai lo sviluppatore saresti uno stupido a non mettercelo. Questi due signori, complementari e lontanissimi tra loro, sono stati convinti a partire per Le Mans dopo lunghe e pittoresche anticipazioni su ciò che gli si sarebbe parato davanti: il GP di Francia è un evento, una Woodstock, centomila persone, un disastro. Non sapevo che sarebbe andato tutto a puttane, ho deliberatamente abusato della loro amicizia che poi, a ben vedere, è l’unico abuso che si fa con sincera gentilezza. Un favore però lo avanzo: anni fa, quando Francis si è trovato in una relazione tossica e violenta l’abbiamo rapito. Un vero rapimento per una fuga a Londra che si trasformò in un flop clamoroso, in quanto lui non riuscì ad andare fino in fondo ritrovandosi a prendere un taxi mentre noi due, preso atto della sua scelta, ci ritrovammo a Gatwick per quello che diventò rapidamente un tour dei migliori cocktail bar di Londra. Sì, perché Pellino di mestiere fa il barman. Dove bere a Londra? Gibson, Oriole, qualche speakeasy, Nightjar, Cahoots.
Siamo in camper da venti minuti e mentre Francis porta questo povero bastardo ai 160 orari sulla E45 noi finiamo la prima bottiglia di rosé. Il morale è alto, la navigazione lunghissima, oltre 1.200 chilometri di autostrada. Pelly è innamorato e mi consiglia di smetterla con queste trasferte: questa, dice, non è la felicità, campare per il lavoro è una roba da deviati. Passiamo per il traforo del Frejus e ci fermiamo a mangiare a La Truchère, un paesino con su scritto Francia anche sulle cortecce degli alberi, bevendo litri di vino. Poi mentre lo stereo suona Grandaddy noi ci alterniamo alla guida fino a notte per fermarci in un autogrill francese. Pensavo che arrivare in camper a Le Mans mi avrebbe permesso di risparmiare, ovviamente è il contrario principalmente per via delle velocità folli a cui viene sottoposto il nostro mezzo, oltre al fatto che le autostrade francesi non aiutano. A casa, nel frattempo, mia moglie Giulia ha deciso per un lungo silenzio di prova, niente messaggi o altro se non per questioni di assoluta urgenza: “Quando sei via mi manchi da morire, appena torni mi capita di detestarti”. I ragazzi temono il divorzio, io bevo per non pensarci.
Arriviamo in circuito il giovedì pomeriggio, giusto in tempo per le mie prime due interviste one to one: prima Alex Marquez, che ho chiesto per un quarto d’ora a Cristian Massa di Gresini Racing, poi Tony Arbolino. Vengo da un pranzo consumato nel ristorante per camionisti Z’épicuriens, a Chuisnes, tra Chartres e Le Mans, che poi è la strada del brocantage, disseminata di rigattieri di livello: per venti euro mangi tutto quello che può venirti in mente. Ho ordinato Têt de Veau in onore di Anthony Bourdain dicendo ai ragazzi che Tony, in uno dei suoi libri, racconta di come la cucina europea nasca dalle campagne, da gente che doveva inventarsi un modo per riempire la tavola e di conseguenza cucinava di tutto dando vita a preparazioni fantasiose: frattaglie, ossa, cervella, sangue. Parlare francese mi fa stare bene, ma quando arrivo davanti ad Alex Marquez ho l’unico pensiero di non vomitargli addosso quella poltiglia gelatinosa farcita di gribiche che mi ha agitato lo stomaco nelle ultime due ore. L’idea di debuttare così, inondando il tavolo dell’hospitality Gresini di cervella di vitello davanti ad un pilota della MotoGP, mi fa passare un po’ di quell’ansia da prestazione che inevitabilmente si palesa prima di ogni intervista. Insomma, stavolta è un’ansia diversa. Per il resto sono pronto: le domande sul taccuino scritte in camper, che poi cambiano sempre mentre le fai, per me sono fondamentali anche per l’atto fisico di scriverle, perché nel frattempo ti chiedi se siano sensate o, se non altro, ricevibili. Alex non sembra troppo abituato a questa modalità: mi chiede a cosa serve l’agenda, io gliela mostro e sfogliamo le pagine finché vede dei numeri: “Fai i conti di quanto ti costa la trasferta?”. Mi piacerebbe dire di sì, che sono un pianificatore. Invece stasera dividerò il camper con due animali che probabilmente saranno già ubriachi a baccagliare motocicliste francesi in mezzo al campeggio e contare i soldi sarebbe come portarsi un cubetto di ghiaccio nel deserto del Kalahari. Comunque non è male Alex Marquez, di certo non è uno stupido. È, però, l’ennesima conferma del fatto che buona parte dei piloti della MotoGP non ha idea di cosa sia una vita sregolata: sono al centro di un mondo diverso dal nostro in cui hai meno dubbi, perché domande esistenziali - come investire il tuo tempo, come farcela - le hai già risolte da bambino e ora hai problemi più pratici. Con Tony è un’altra storia.
Arriva sullo scooter vestito da ultras, con cappello e scaldacollo che lasciano intravedere solo gli occhi. Mi guarda un po’, dice “hello”, poi chiede in inglese come si chiama il giornale indonesiano per cui lavoro - per qualche strano motivo ne è convinto - con la faccia di chi ha scoperto uno sporco segreto: cosa cazzo ci fai tu, biondo, alto e pallido, nella redazione di un giornale asiatico? Così gli spiego che il giornale è italiano, è MOW, ci facciamo una risata partiamo con l’intervista. Tony parla come Emis Killa, mi dice “non lo sa nessuno, ma potevo fare il rapper”. Tony Arbolino è un irregolare che doveva giocare a calcio, spacciare coca, fare il barbiere o tutte e tre le cose assieme, magari arrivando davvero a una carriera da rapper. Invece è un incredibile fenomeno della velocità e ricorda un po’ i piloti di una volta, quelli venuti dal nulla con la manetta pesante e nessuna remore a rispondere con un rutto ai rompi coglioni: gli auguro il meglio. La giornata è lunghissima, uscito dall’hospitality corro alla conferenza stampa del giovedì che si svolge in una saletta grande quanto il cesso di un hotel, al buio, con i giornalisti stipati lì dentro come sardine in un barattolo. Le Mans è il posto più incredibile su cui si possano poggiare delle ruote ed è assurdo che venga gestito così, ma tant’è. Dentro al paddock - enorme, diviso in due e solo una piccola parte dell’enorme Circuito de la Sarthre in cui corrono la 24 ore - ci sono un museo, un circuito di kart, diversi campeggi, un palco con musica live e un piccolo luna park.
Comunque, noi il camper lo abbiamo parcheggiato direttamente in circuito grazie alla compiacenza degli addetti ai lavori: di spazio ce n’è, così anche se il pass non sarebbe accessibile per i motorhome ci lasciano entrare e i ragazzi possono godersi lo show da bordo pista senza il biglietto. I francesi in questo sono eccezionali: tra tutte le tappe europee Le Mans è tra le poche, se non l’unica, gestita esclusivamente da un privato, che paga una sorta di noleggio al circuito e poi ci fa quello che vuole: vai in perdita perché non vendi i biglietti? Ci rimetti tu. Così ogni anno a si registra un record di presenze. Chiunque, da Vera Spadini - che vorrei aver avuto come sorella maggiore - all’ottimo Matteo Aglio, giornalista di GPOne con cui condivido le pause sigaretta, sono concordi nel dire che il GP di Francia è una vera rottura di coglioni. Anzi, un grandissimo casino. Almeno non piove, dicono. Capirò solo la domenica pomeriggio quello che intendevano dire: il sabato sera al Mugello a confronto è una visita al Louvre.
La sala stampa di Le Mans è tra le più attrezzate, i frigoriferi dispensano Red Bull gratuite e sui tavoli ci sono piccoli gadget da portare via. Io siedo vicino a Marco Rimondi, che lavora da un numero incalcolabile di anni in Ducati e che, col tempo, scoprirò essere uno straordinario appassionato di corse e relativi retroscena. Mi racconta di Stoner, di Valentino e di una Multistrada con 200.000 chilometri nel motore. Poco più in là c’è Paolo Ianieri, anche qui serafico come al suo solito. Mentre stiamo facendo due chiacchiere sulle corse e la Gazzetta ci avvicina Pol Bertan, che assieme a Laura Beretta gestisce la comunicazione del VR46 Racing Team, invitandoci a cena nell’hospitality: in questo paddock tutto è veloce e spesso eccezionale.
L’ambiente, per essere un giovedì di gara, va oltre ogni aspettativa: le tribune che affacciano sul rettilineo sono piene, roba che in altre piste non vedi nemmeno la domenica. Ci sono degli equilibristi a venti metri da terra e Fabio Quartararo lancia un casco in edizione limitata al pubblico mentre Giacomo Agostini racconta due o tre cose in francese. All’hospitality della VR46 c’è un ristorante, Civico46, con tanto di menù alla carta, che per la MotoGP è una cosa piuttosto rara. Marco Bezzecchi sta giocando a calcetto con Matteo Flamigni e un paio di meccanici, non lo fa per i social. La cena è per una dozzina di giornalisti italiani e, ci spiegano, nelle prossime tappe verranno invitati quelli stranieri. Ad ogni piatto che la cucina manda in tavola Gigi Soldano scatta una foto. A metà cena, per la verità piuttosto ordinata, comincia un lungo dibattito: c’è chi dice, che Luca Salvadori, con cui ho un ottimo rapporto, corre soltanto perché fa lo Youtuber e non per i risultati, dunque come se fosse un pilota pagante. Per me è l’esatto contrario, un pilota pagante in MotoGP i soldi non li ha guadagnati ma se li è fatti dare dalla famiglia. Salvadori è riuscito a correre - attualmente è l’unico caso nel motomondiale - grazie al suo lavoro. La cosa buffa davvero però è il grado di serietà con cui viene affrontato l’argomento: trovarsi fra una dozzina di adulti relativamente istruiti a discernere di questi dettagli fa lo stesso effetto di assistere ad una compravendita tra collezionisti di Puffi.
Fortunatamente poco prima del dessert arriva Uccio, che all’ultimo momento ha deciso di posticipare il suo volo del mattino per risparmiarsi un’alzataccia. È reduce dal derby di San Siro per le semifinali di Champions League e da un volo in ritardo, eppure mi basta ascoltarlo per mezz’ora per capire come mai Valentino Rossi l’ha voluto a fianco per buona parte della sua vita: la prima cosa che fa quando si siede è chiedere se qualcuno vuole un gin tonic, un gesto di cortesia mentre ordina il suo. Io però dico di sì, in modo che oltre a poter dire con certezza che Mr. Salucci ha ottimi gusti in fatto di distillati posso anche dire di aver bevuto con lui. Il drink deve ancora arrivare che Uccio sta già catalizzando l’attenzione con la stessa facilità di una stripper in galera: “Praticamente ero nell’anellor buono, quello dei fighi che vedi da vicino, ma in mezzo a tutti i milanisti. Oh, mi son trattenuto eh, tanto cosa devi fare? Questi ti menano, capito? Poi però al primo gol non ce l’ho fatta più, ho cominciato a urlare… Diobono come ho goduto”. Parla svelto, sceglie le parole giuste, viene allegria a sentirlo. Avere uno così a fianco ti migliora le giornate per forza, motivo per cui dopo questa lunga performance non ho grossi dubbi sul fatto che almeno uno di quei nove mondiali Valentino lo deve a quest’uomo. Se replicare un successo è difficile lo è anche perché magari ti manca la voglia, un obiettivo nuovo. Se Vale ha vinto così tanto lo deve anche a chi gli è stato a fianco ed ha continuato a emozionarsi, a spingere, a dare importanza a quello che faceva lui, Valentino, che magari al pubblico ha sempre dato un’importanza relativa ma che nella sua gente ha sempre creduto. Uccio è quello che racconta gli aneddoti, che se la vive bene, che sta sul pezzo. Per anni, almeno finché non è diventato Team Director MotoGP di quella che oggi è la seconda squadra nel mondiale, si è detto che il suo è il lavoro più bello del mondo, passi i guanti a Vale e lo guardi demolire un record. Il punto è che Alessio Salucci ha almeno altrettanto talento, solo che è tutta materia attoriale: Uccio è l’emblema del romagnolo che arriva al bar e ti racconta una fiaba riuscendo a farsi ascoltare anche dai bicchieri, uomo di campagna finché si può e diplomatico d’esperienza ogni volta che serve. Di personaggi così ce ne sono tanti in riviera, ma nessuno di loro ha avuto la fortuna di poter raccontare storie di questo livello realmente successe. Dove gli altri inventano lui ricorda, semmai omette qualcosa. Finita la cena prenoto un Uber per andare in centro, dove i ragazzi stanno facendo esattamente quello che mi sarei aspettato da loro quando ormai sono le 23: nel mezzo di una tavolata, Francis sta raccontando aneddoti - questi sì, estremamente fantasiosi - ad un paio di ragazze del posto. Passiamo la serata a complimentare qualche birra, per poi approdare in un club dove finiamo a giocarci tutta la moneta sul flipper. Torniamo al camper, ormai adattato alla piccola città di Le Mans, che è quasi mattina. Giornate così grosse capitano di rado e, soprattutto, capire un pochino Alessio Salucci ti fa capire moltissimo di come funziona lo sport.
Il venerdì è quello delle prove libere, di Franco Morbidelli - ancora impossibile da intervistare privatamente - che dice che migliorare è d’uopo, probabilmente classificandosi come primo pilota della storia ad usare questo termine. Un altro così, anche se magari lui il dizionario lo lascia a casa, è Danilo Petrucci, arrivato in Francia per sostituire Enea Bastianini con un camper grande quanto il nostro. Sono, ancora con Paolo, dalla Ducati rossa ad aspettare il nostro turno per la cena dei giornalisti - che sì, è diventata subito una costante - e ci sediamo al tavolo di Danilo per due parole: “Oh, non mi volevano far entrare”, ci dice ridendo. Penso che a noi, invece, non hanno chiesto niente. “Praticamente questi mi fermano lì, al cancello, e chiedono il pass. Io dico che non ce l’ho, che non so se mi arriverà e che devo guidare la MotoGP. Mica ci credono. Gli dico dai, sono Danilo Petrucci! Ho cominciato a fargli vedere le mail della Ducati e alla fine ho parcheggiato il camper in quel posto che non è male”. Poi prosegue a raccontare della sua prima volta con una moto. Nello specifico la moto è una mille coi semi manubri, forse una Honda CBR, lui ha tredici anni. Per l’occasione questa bara su ruote monta le gomme da gara di Mick Doohan che il padre, Danilo anche lui, per anni autista del camion di Capirossi, aveva rimediato nel paddock. “Io abitavo in questo paesino qui", dice tirando fuori Google Maps. “Vedi questa strada tutte curve? Eh, in cima c’è il paese e sotto casa mia. Mio babbo accende la moto, io salgo fino al paese ‘co sta moto che tirava come una bestia, urlava, poi arrivo nella piazzetta a Terni… te pensa il casino che aveva fatto quella moto venendo su, s’era bloccato il paese, la gente che guardava! E niente, ho girato e sono tornato giù”. Danilo per me è l’uomo che ha reso John Petrucci l’altro Petrucci, quello che conta un po’ meno, quello meno bravo. Purtroppo ci chiamano per la cena come si fa con i bimbi la sera, che poi è il modo che gli addetti stampa - per necessità - trattano i giornalisti di qualunque settore. Il guaio è che c’è chi finisce per abituarsi.
La cena in Ducati, se possibile, è ancora più scoppiettante di quella in VR46, perché non siamo ancora arrivati al secondo che tiro fuori l’argomento più divisivo del motociclismo con la stessa energia di Francis Begbie in Trainspotting quando lancia una pinta di birra al piano di sotto: 2015, Rossi e Marquez. Il capo della comunicazione del Team Lenovo, Artur Vilalta, è un uomo che affronta la vita e i suoi problemi a schiena dritta, niente di meno: spagnolo in mezzo ad un conclave di italiani, gentile ma risoluto e fermo, a tratti impietoso. Una volta siamo stati al telefono un’ora perché voleva spiegarmi i retroscena su di un pezzo che avevo scritto, il tutto mentre prendeva un aereo. Artur si è fatto il culo per una vita e comunque, come tutti noi, non ha certezze sul suo futuro, solo contratti biennali come quelli dei piloti, cosa che ti obbliga ad uno stato mentale in cui guardi avanti senza troppi discorsi. Lui, nel 2015, era l’addetto stampa di Jorge Lorenzo e quei momenti li ha vissuti più intensamente di tutti noi, probabilmente anche di me che a giugno sono diventato padre e tra i nomi di battesimo di mia figlia sono riuscito a strappare un Valentina. La notizia di questa serata non è il punto di vista di Jorge Lorenzo, che in quel contesto si trovò come un dodicenne col pisello cresciuto troppo in fretta, ovverosia confuso, felice, smanioso e inadatto alla situazione che l’Altissimo gli aveva letteralmente messo tra le mani. La notizia ancora una volta sono i giornalisti: royal rumbe di opinioni che ognuno considera definitive come l’inferno per i cattolici, una lotta completamente priva di ogni obiettività, con gente pronta a prendersi a forchettate sulle mani nonostante il contesto, caratterizzato da un servizio curato e camerieri attenti che il vino non scendesse sotto i tre quarti del calice. Sembra una puntata della Zanzara. Tutto questo è ancora più divertente perché il giornalista di norma è morigerato, buone maniere e cortesia, sempre attento a non far incazzare nessuno perché a farsi requisire il pass basta un attimo. Punta nel vivo però anche questa è gente da bar, la peggiore tifoseria. Gente a cui, però, non manca la passione, che poi è il motivo per cui restiamo lì fino a tardi a parlare del fottuto duemilaequindici, tra i racconti di Antonio Boselli e le stilettate di Manuel Pecino, giornalista spagnolo di grandissima esperienza. Il mio punto di vista? Di sbagli Rossi e Marquez ne hanno fatti entrambi, quell’anno Vale era più lento di Jorge e forse l’avrebbe perso lo stesso. Valentino però ha parlato sempre chiaro, da subito, e lo ha fatto davanti al pubblico che avrebbe potuto prenderlo per scemo. Marc no, questo suo approccio bestiale e spudorato l’ha tenuto per sé, ma se devi farlo perché sei un cannibale dall’ego smisurato dillo chiaramente, come lo stesso Rossi fece con Gibernau dopo una gara al Sachsenring: “non vinci più”, gli disse. E quello non vinse più. Marc con un po’ di onestà ci avrebbe guadagnato, l’onestà paga. Oppure, se devi mentire, fai una cosa più raffinata: faglielo vincere il mondiale, prenditi i suoi tifosi che in te vedono l’erede, così ogni volta andrai a letto con l’idea di aver fottuto un intero popolo.
Mentre parliamo di Phillip Island, Sepang e Valencia i ragazzi si sono trovati un campeggio, per loro resistere nel paddock è una sfida. Questo per me è sempre stato un tema piuttosto rilevante: non ho amici motociclisti. O meglio, non ne ho nella mia vita fuori dalle corse e dal lavoro. A mia moglie chiaramente non importa un cazzo, come non le è importato un cazzo quando mi sono presentato con una Ferrari Portofino in prova con carta carburante off limits incastrata sotto il parasole gentilmente offerta da Maranello. È molto meglio così, perché non rischi mai di sentirti il figo che non sei, al limite puoi passare per matto.
La serata più interessante però, come di consueto nei weekend di gara, è il sabato. Quando raggiungo Francis e Pelly con un altro giro di Uber dopo aver preso un’innaffiata di prosecco da Jorge Martín li trovo nel pieno di una discussione con un grosso gruppo di francesi, forse una dozzina. Sotto al gazebo che hanno allestito c’è un tavolo, sopra al tavolo una trentina di bottiglie. In sottofondo, ma neanche troppo, qualcuno sta stuprando un irriconoscibile quattro cilindri con uno scarico costruito a mano nato con l’unico obiettivo di casino. È Le Mans questa, un vero festival della velocità, il ritrovo di tutti i bar in cima al passo in un posto solo. I campeggi attorno al circuito sono la guerra senza la guerra: botti, fumogeni, fuochi, accampamenti. La gente ci cammina in mezzo con il viso coperto, un sadico potrebbe trovare una buona ragione d’esistere sparando tra la folla con un fucile da softair, tanto nessuno capirebbe da dove arrivano i colpi. Ad un certo punto si presenta un tizio assieme a quella che capiamo piuttosto in fretta essere una prostituta. Lei sembra allegra, lui è completamente sconvolto: produce qualche incomprensibile verso con un vocione in francese, prende una bottiglia di vino dal tavolo ed entra nel camper con la sua compagna. Alto, un New Era a coprire la calvizie, camicia con le papere e pantaloncini corti, scarpe da ginnastica che arrivano alle caviglie, leggermente sovrappeso. Ben più tardi, dopo aver accompagnato la sua donna ovunque dovesse andare, ci illustra la sua versione dell’amor cortese, collaudata e perfezionata nel tempo: “Prima prendi questo”, dice aprendo un beauty case da cui sbucano spazzolino, dentifricio e un attrezzo di gomma che non si usa per lavare i denti. Ne tira fuori una bustina di plastica grande come un pacchetto di fiammiferi. Capiamo che è kamagra, una sorta di viagra indiano. Lo appoggia sul tavolo e ci mette a fianco delle pillole azzurre. La ricetta di Thibault, che lui indica puntando col dito come sui tasti del bancomat, è un terzo della bustina del primo e mezza pasticca del secondo, che serve a ritardare l’orgasmo: “Bam! C’est parfait”. Quando ce ne andiamo la compagnia dei francesi sta ascoltando per la diciottesima volta il racconto della serata di Thibault, siamo chiusi in camper ma le moto suonano fino alle quattro. Nessuno lo racconta, eppure Le Mans è anche questo.
Pelly è incazzato, prima di dormire lui e Francis hanno una lunga discussione: “Non mi diverto più con queste stronzate, non abbiamo mica vent’anni. Possiamo conoscere della gente, vedere ‘sto spettacolo e ci sono i concerti, man! Invece noi? Un cazzo, stiamo qui a parlare co ‘sti scemi. Siamo fermi, sempre uguali, dei minorati mentali”. Il giorno dopo, all’alba, salirà su di un Flixbus per l’aeroporto di Parigi per poi prendere un volo per l’Olanda. Il punto è che Pellino è incapace di giudicare gli altri, parla di se stesso, a volte gli capita di essere scontento perché vorrebbe dare di più, vedere più posti, parlare con più persone. È, appunto, un viaggiatore, così a volte lo trovi come una di quelle macchine del Polistil lasciata sul parquet: se la metti al posto giusto viaggia come un demonio, preciso e inesorabile, più svelto di quanto potrà mai fare un professionista. A volte scappa dal suo binario, altre cambia proprio circuito. Non può stare fermo e si fa guidare dal flusso, sempre. Noi restiamo per la domenica, ci aspettano tre giorni di fiere dell’antiquariato in cui dovrò trovare il modo di lavorare al giornale e al contempo riempire il camper con pregiatissimi oggetti d’arte. Quando arriviamo alla dogana non abbiamo più nemmeno i soldi per la benzina, le autostrade sono bloccate dall’alluvione e una settimana di convivenza comincia a pesare sugli equilibri miei e di Francis. Questi viaggi che facciamo noi tre sono belli quanto dolorosi, ma comincio a sospettare che la parte più complicata svanisca dai miei ricordi come il dolore del parto: il tuo cervello lo dimentica perché altrimenti non saresti in grado di farlo di nuovo. Ora però, mi aspetta la prima tripla della mia carriera: Mugello, Sachsenring e Assen, tutto in tre settimane. Un consiglio spassionato? andate a Le Mans, perdetevi lì dentro.