La prima volta davanti a Pecco Bagnaia è stata nel 2015. Al Santa Monica di Misano – da queste parti lo chiamano ancora così – era di scena un SIC Day e non me lo ricordo che giorno fosse, ma di sicuro è stato il giorno in cui ho patito più freddo di tutta la mia vita. Ok, sulla costa romagnola non è mai freddo davvero, ma se ti sei vestito come un ragazzino in estate e invece estate non è va da solo che quel freddo te lo ricordi per tutta la vita. Però al freddo che faceva fuori corrispondeva, quel giorno, un calore pazzesco che invece stava dentro. Per la situazione, per quello che significava e poi è significato nella storia personale, per chi c’era a condividerlo, per l’intensità di quella condivisione. Ma pure perché, comunque, si respirava quell’aria lì che solo nel motorsport si respira quando si ricorda chi non c’è più : gas a mani piene per ribadire alla morte che, per quanto salato possa essere il conto che ogni volta ci presenta, nessun prezzo sarà mai abbastanza alto per una passione così grande. C’era pure Pecco a quel SIC Day che era stato quasi tutto incentrato sul flat track nel pistino interno di Misano. Un’arena senza nessuno da domare e in cui, anzi, scatenarsi nel segno del 58, come avrebbe fatto il 58. Era sbarbato, Pecco, decisamente smilzo,(come ci ha raccontato anche suo padre Pietro in questa intervista esclusiva) con addosso una tuta infangata della Mahindra e aveva l’aria di quanto di più distante ci fosse da un predestinato. Correva già nel mondiale di Moto3 e riusciva spesso a far andare forte una motina che invece forte non ci voleva andare per natura.
Quel giorno Pecco Bagnaia non era certo la star, perché c’erano fior di piloti che correvano già in MotoGP, c’erano grandi campioni del flat track e del cross, c’erano fenomeni del passato. C’era, ad esempio, Giancarlo Falappa e c’era pure Andrea Dovizioso. Lui, il Dovi, la tuta ce l’aveva della Ducati. Era infangata alla stessa maniera di quella di Pecco, ma il Dovi stava lì a cercare di pulirsela. Pecco, intanto, girava su e giù come un ragazzino che sta tra i protagonisti ma sembra sentirsi un beneficiato. Ti dava l’idea che da un momento all’altro avrebbe chiesto l’autografo a qualcuno: frenesia, timidezza, occhi che andavano a fuoco. Soprattutto quando quel ragazzino sbarbato – che pure correva già nel mondiale e avrebbe potuto darsi delle arie – s’è ritrovato proprio davanti al box in cui Andrea Dovizioso, mentre parlottava con Falappa, stava cercando di darsi una ripulita. Quel momento è stato l’unico in tutta la mia vita in cui ho sentito la spinta a scattare una foto. Io le foto le odio, perché per farle finisci con il non goderti il momento. Però quella volta lì è stato diverso. Perché c’era il Dovi in ginocchio e Pecco in piedi davanti che, con la scusa delle manche da disputare, attaccava bottone. Una chiacchierata tra i due di quelle che annullano le distanze, parlavano come parlano due piloti e non come parlerebbe un campione affermato con un ragazzino che al mondiale ci si è da poco affacciato. Di lì a poco sarebbero risaliti in sella per prendersi a sportellate nel sacro nome dei traversi.
Ce l’ho ancora quella foto, forse l’ho pubblicata anche su qualche social, ma è come se nel momento stesso in cui ho avuto l’impulso di scattarla avessi maturato la consapevolezza che per spiegarla ci sarebbe voluto del tempo. Un tempo che è arrivato e che la carica di significati. Perché Pecco Bagnaia, oggi, guida in MotoGP quella Desmosedici che è diventata la migliore delle motociclette proprio grazie a Andrea Dovizioso, che nel frattempo ha appeso il casco al chiodo dopo un deludente ritorno con Yamaha. Un quasi re già “vecchio”, in ginocchio davanti a un principe predestinato, nell’anno in cui la MotoGP ha toccato il punto più basso e divisivo della sua storia, in un giorno d’ottobre a Sepang, quando Marc Marquez e Valentino Rossi sono arrivati alla resa dei conti. Era il momento in cui tutto faceva quasi schifo, il momento dei toni alti, delle posizioni fuori luogo, dello sport sporcato, ma il destino stava già preparando un dopo, con protagonisti proprio quel quasi re che due stagioni dopo avrebbe sfiorato la vittoria con la Desmosedici e il principe predestinato che, nel 2022, ne avrebbe raccolto l’eredità (a prescindere da come andrà a Valencia). Avrebbe ereditato, di lì a poco ma senza saperlo, un regno fatto di tifosi tutti rossi che aspettano da tanto tempo. Che da tanto tempo sognano come sognava quel ragazzino smilzo e sbarbato. Si va a finire sempre lì, ai sogni, quando ci si ritrova davanti a immagini del passato, perché sono ciò che ci accomuna tutti, piloti e non piloti, sporchi di fango o attenti a ripulirci, quasi fossero l’unica verità che siamo disposti a ammettere.