Marco, Arisa, Tiziano Ferro. Ho letto tre interviste questa mattina. Marco è un hikikomori. Sta chiuso in casa. Significa “stare in disparte”. Soffre da quando è ragazzino di una dermatite cronica: si grattava fino a sanguinare. Non riusciva ad accettarsi. I compagni di scuola lo chiamavano il lebbroso. Si è sentito meglio solo quando ha scoperto l’associazione per il suo disturbo. “Ho smesso di essere un vegetale. Ho provato sollievo, non ero più solo”. Dice: “Il malessere non si cronicizza solo se la famiglia ti accetta e ti aiuta”. Come quasi sempre, come sempre. E a lui, per la colpa del padre che non l'ha fatto, non è successo. Il giornalista gli chiede: ricordi un momento di felicità? “Avevo 4 anni. Mia nonna Agnese mi portò in una fattoria e mi fece accarezzare le paperelle e gli asini”. A me sta frase mi ha dilaniato. La bellezza e la tenerezza. La semplicità.
Arisa la conosciamo tutti. Adesso su instagram mostra pure quello che altri reputerebbero difetti. Mi è sempre stata simpatica, Arisa, anche solo sentendola al telefono per un’intervista: una voce acuta, ragionamenti disordinati, e a me i disordinati di testa mi piacciono perché lo sono pure io. “In Basilicata mi prendevano in giro per il mio naso, perché avevo pochi vestiti, perché andavo con mio nonno a pascolare le pecore e chiamavano pecora pure a me”. E la cosa più pesante è quella che dice prima: “Per me era naturale pensare che gli altri avevano ragione”. Si è rifugiata in quello che le faceva stare bene, la musica, appoggiandosi a chi l’ha sempre incoraggiata, suo padre.
Su Sette, invece, domani esce un’intervista a Tiziano Ferro. Dieci anni fa ha fatto outing. Oggi confessa la sua esperienza da alcolista. “Mi sono sempre sentito in difetto. Alcolista, bulimico, gay, depresso, famoso: pure questo lo vivevo male”. Colpa anche qui di un passato “dove mi chiamavano femminuccia, ciccione, sfigato”. Poi ha cantato, ed è cambiato tutto.
Sentirsi inadeguati è tremendo.
Far sentire inadeguati è ignobile.
Alle superiori avevo un compagno. Per colpa di un suo difetto lo prendevamo in giro. Anni fa, leggendo uno dei miei testi, mi scrisse in privato: “Per colpa vostra ho pensato al suicidio”. Mi sono scusato. Mi sono sentito io, lo sbagliato.
Io non sono mai stato bullizzato per fortuna, solo una volta, in centro a Montecatini, un ragazzo più grande mi prese di mira fuori dalle scuole medie. Un pomeriggio, di sera, me lo trovai davanti in una stradina. Scappai d’istinto. Mi rincorse. Io fermai un signore e mi misi dietro di lui. Il ragazzo voleva convincerlo che io era suo fratello minore e che mi doveva riportare a casa. Il signore lo mandò via, urlandogli contro. Per anni ho creduto che in quell’occasione avevo avuto paura a non affrontare il ragazzo più grande. Stamattina invece ho realizzato che a fermare quel signore e a chiedere aiuto ero stato molto più coraggioso di quello che credevo.
Cosa mi resta di tutto questo? Alcuni comandamenti, che più che comandamenti sono intenzioni.
Amare. Con tutto ciò che si può, con tutto ciò che abbiamo a disposizione. Ché con l'amore guarisce tutto.
Accettare. Chi sei prima di tutto, chi vuoi essere dopo. E accettare le persone che hai intorno con tutti i pregi e soprattutto i difetti.
Non spegnersi mai. Che ognuno di noi ha dentro e intorno ciò che può salvarlo: un familiare, un amico, un talento.
Mi è venuta in mente una canzone di Jovanotti, che mi piace perché dice questa frase: "I fiumi del paradiso bagneranno Gerusalemme quando tutti figli sopravviveranno ai babbi e alle mamme". Bellissima. Da genitore queste parole mi rimbombano ogni giorno. Quella canzone inizia così: "Mandiamoli a cagare i bulli e i vittimisti, gli indignati di mestiere, i fondamentalisti". Ecco, i bulli, che andassero a cagare.