Una sera, dopo averlo aiutato ad alzarsi e a fare la pipì e a sciacquarsi le mani, ho pulito la sua coscia destra dove un po' di sangue si era incrostato. Mentre ero piegato, con la vocina, Orlando mi ha detto: "Ti voglio bene". Mi sono tirato su, l'ho abbracciato e gli ho risposto anch'io amore mio. Dopo, gli ho detto che era bello quello che mi aveva detto, perché è bello esternare i propri sentimenti e non dare niente per scontato.
Da 5 giorni condividiamo tutto, visite, ricoveri, stanza d'ospedale, ansie, aspettative, paura, e paranoie, io e lui soli. Il primo giugno mio figlio ha cominciato ad avere dolori alla pancia, il 2 è stato operato, il 4 dimesso e sempre il 4 ricoverato ancora per febbre alta. Gli ultimi due sono stati i giorni più duri: perché non si capiva se la causa della febbre era un'infezione o un virus intestinale, perché il suo morale era distrutto, perché la debolezza gli ha succhiato i muscoli, perché era esausto di esami e cure. Eppure, come stiamo riempiendo quello che ci sta succedendo è qualcosa di bello: ritrovarsi padre e figlio in un letto abbracciati a parlare di speranze e risentimenti, ad aspettare dottori, esami e risposte, commentare i messaggi che arrivano e quelli che non arrivano, oppure a ridere di battute stupide è un'occasione per misurarsi, confrontarsi, saldare un rapporto e renderlo in qualche modo eterno dentro ognuno di noi. Il ricordo dello stare qui, insieme, è qualcosa che non ci toglierà nessuno.
Quando è entrato in sala operatoria rideva per una scena della sera precedente, quando la dottoressa gli aveva detto che avrebbe dovuto fare un clistere. Lui pensava che significasse prendere delle pillole, io invece, candidamente, sono andato diretto: "No, Orlando, ti infilano un tubicino nel culo". Lui credeva che scherzassi perché da quando c'è il Covid continuo a dirgli che deve farsi un tampone anale, invece stavolta dicevo la verità. Ecco, questo pensiero, prima di entrare in sala e tutto fatto di benzodiazepine, lo faceva ridere tantissimo.
Una volta entrato, ho pianto. Per la paura che sempre accompagna noi genitori, per il fatto di saperlo lì, da solo, in mezzo ai dottori, per il dispiacere di non essere sul lago a festeggiare il primo compleanno della sua sorellina Anita. Ho pianto giusto un po', per buttare fuori, poco dopo ho chiamato la madre Ginevra e l'ho aggiornata su tutto. Poi sembrava andato tutto bene.
Invece no. Adesso siamo ancora in ospedale, non sappiamo ancora quanto ci dovremo restare. La tv in camera non funziona. Io dormo su una brandina di gommapiuma consumata. Dalla finestra del settimo piano si vedono campanili, facciate di chiese, la guglia del Duomo e i grattacieli della nuova Milano. Vedere il proprio figlio soffrire è tremendo, anche se sai che tra qualche giorno sarà tutto passato. Ti senti inerme e capisci che alla fine, e pure all'inizio, tutto ciò che ti resta e tutto il meglio che puoi dare è una cosa semplice: l'amore. Non la conoscenza, non le supposizioni, non una finta sicurezza, ma l'amore.
Se fai una domanda in più a un dottore è per amore, se ti incazzi è per amore, e se stai lì e lo assisti e gli lavi una ferita e lo rincuori e lo motivi e lo coccoli è sempre e soltanto perché tutto ciò che puoi dargli e dimostrargli è quello. Che pena, tutte le volte che sento dire a qualcuno che una malattia gli ha fatto capire quali sono i veri valori della vita. Se hai bisogno che ti succeda qualcosa di brutto per comprendere cosa è davvero importante significa che stai sprecando tempo. Che alla fine, e pure all'inizio, ciò che conta davvero è stare bene e per stare bene è fondamentale avere sempre delle mani e delle braccia e della labbra da cui tornare, non sentirsi mai esclusi, mai soli, pure quando lo si è fisicamente. Ciò che conta alla fine, e pure all'inizio, è l'amore che si riceve e che si dà. Ed è incredibile come sia tutto, incredibilmente, qua.