Mi stava riportando a casa. Abitavo in fondo a via Padova, ma proprio alla fine, periferia di Milano, e Lady Tarin guidava la sua Polo o la sua Golf, non ricordo bene. Si è girata verso di me e mi ha detto: “Questa è l’ultima stazione di Dio”. Poi ha riso, e ho riso pure io. Ci vedevamo spesso in quel periodo, ci eravamo conosciuti per un’intervista, mi piacevano le sue foto e andai a trovarla. Mi è piaciuta subito Lady. Forse me ne innamorai. Restai a casa sua ore, da lì ci siamo frequentati diverse volte. Le serate si svolgevano sempre allo stesso modo: camminavamo, bevevamo vino o the anche in posti dimenticati dal Signore, parlavamo di arte, di noi, di niente e di tutto, poi lei mi riportava a casa e sotto casa mia stavamo altre ore a parlare.
Davanti a lei la verità è che non mi sentivo alla sua altezza, che mi appariva così fragile quando in realtà fragile ero io. Lei era così alta, preziosa ed eterea che non riuscivo a essere veramente me stesso. Poi un giorno le scrissi una canzone e la registrai sul cellulare. In realtà era solo una strofa, faceva così:
Lady Tarin
I belong
to a place
you well known
Take me to the last
station of God
Take me to the last
station of God…
Una sera, in una delle cene che facevamo con Toni Thorimbert a un cinese che si chiama Lon Fon, gliela feci ascoltare. Lei sorrise, occhioni e bocca spalancati, e mi disse qualcosa di bello. Qualcosa di bello me lo disse anche durante la prima intervista. Le chiesi cosa cercava nelle donne che fotografava. La risposta fu che cercava di riportare le sue ragazze a quella condizione di innocenza di quando erano bambine, prima di sentire il giudizio dell’uomo davanti a una loro posa o atteggiamento. Prima di sentirsi in colpa.
Ho ripensato spesso a questa frase perché negli anni è diventata sempre più attuale. E non è un caso che il suo libro, uscito da poco da NFC edizioni, si intitoli Guiltless, senza colpa. C’è il percorso di Tarin (nel frattempo Lady l’ha tolto dal suo nome), dalle donne ritratte nei propri appartamenti alla strada. Dentro ci sono ragazze a cavallo, capezzoli, peli, situazioni da bordelli anni 30, culi meravigliosi e sguardi e pose che sì, vengono prima o vanno al di là della colpa e del giudizio. Che sia la colpa sia il giudizio sono tra le cose più noiose e tristi che ci siano, se non altro perché portano le persone a essere scontate e banali. E dentro Guiltless c’è pure la bellezza del corpo. Ché la bellezza non è mai oggettiva ma ha a che fare con l’etica e a ciò che uno sente e trasmette. Solo per questi due motivi merita averlo, sto libro, e merita conoscere la sua opera.
Io e Tarin non ci sentiamo da un po’, non so nemmeno come prenderà questo pezzo, i rapporti si sono distanziati soprattutto dopo una pubblicazione su un magazine che ho diretto, Urban. Ma ci sono infiniti mondi e infiniti modi. E in uno di questi io e Tarin siamo ancora all’ultima stazione di Dio, chiacchierando e invecchiando e annoiandoci insieme.