Succede che te la porti dentro la morte. Era mattina, mio figlio nato da poco dormiva accanto a me. Sussulta. Salgo le scale di corsa, apro la porta del bagno, dico quello che ho appena visto a mia moglie, in vasca con mia figlia, e la faccia che fa - stupore, paura, incredulità, a lui no, perché proprio a lui - la riconoscerò migliaia di volte, ogni volta che parlerò di quel ragazzo lì, di Marco Simoncelli. Succede che quasi dieci anni dopo una casa editrice mi contatta, mi chiede di scriverci un libro. E prima di rispondere torno indietro. Io e Marco non siamo mai diventati amici, ma eravamo sulla strada per diventarlo. Ogni domenica gli mandavo un messaggio. Quasi sempre rispondeva. Quando andavo in circuito mi ritrovavo spesso tra la sua gente, nel camper con suo babbo, Carlo Pernat, sua mamma, sua sorella, la sua Kate. E poi l’incidente.
A distanza di qualche mese un settimanale mi chiede di intervistare Babbo Paolo. Rifiuto. Non mi ero mai fatto sentire dalla famiglia. Non me la sentivo. Se pensavo a Marco pensavo a mio figlio. Da genitore mi bloccavo. Troppo intimo e serio è il dolore. Babbo Paolo lo rivedo solo anni dopo. Passavo da Coriano, lo chiamo, mi dà appuntamento al museo. Mentre lo aspetto fisso una bandiera sventolare davanti alla Chiesa, due bambini giocano a pallone. Le loro voci sono l’unico rumore. Coriano era una messa all’aperto che non aveva bisogno di essere celebrata per trasmettere sacralità. L’incontro con Paolo è surreale. Mi fa fare il giro del museo, poi ci fermiamo davanti a una finestra, le colline davanti, il sole leggero che ci batte in faccia. Dieci secondi a mirare il cielo. Nessuna parola. Poi ci salutiamo. Poi, un anno fa, mi chiama la casa editrice. Allora lo richiamo. Al telefono lo trovo più allegro. Mi dice: per me il libro si può fare, sarebbe bello, però devi convincere mia moglie, lei non vuole parlare. Succede che io insisto e che lui mi invita a casa sua: “Devi parlare con Rossella, magari tu ci riesci, io ci divorzio se glielo chiedo ancora”.
Quando ritorno a Coriano mi fa effetto entrare per la prima volta a casa loro, a casa di Marco. Rossella è dolce e spigolosa allo stesso tempo, è dolce e inamovibile. Si scusa se non ha preparato granché. Arriva Kate. Quella è pure casa sua. Parlano tra di loro, della Fondazione, ridono. Ci mettiamo a sedere, io e Paolo da un lato, loro davanti. A pranzo Paolo e Rossella quasi litigano, Paolo alza pure la voce: “Verrebbe una cosa bella, voi non lo capite quanto la gente in giro per il mondo mi chiede di Marco”. Rossella ribatte: “Di Marco abbiamo detto tutto, adesso basta, me lo voglio tenere per me”. Kate appoggia Rossella. E al tavolo manca un parere, il più importante: quello di Martina, la sorella. “Lei non vorrebbe, è categorica. Non ha mai voluto e non vorrà mai”. Tre contro uno. Rossella, chiaramente, mi dice che se voglio scrivere il libro sono libero di farlo, ma che loro non mi avrebbero aiutato.
Avevo già in testa come farlo: il racconto dell’ultimo giorno a Sepang, dal risveglio in hotel alla partenza della gara, che si intrecciava con i racconti, le storie e gli aneddoti di chi c'era, una parte centrale su tutto ciò che in questi dieci anni è stato costruito, il museo, la Fondazione, il team, e infine la chiusa, tornando a quell’ultimo maledetto 23 ottobre 2011.
Dopo tre ore di pranzo era l’ora di andare. Chiedo a Rossella di pensarci ancora e le prometto che ci saremmo sentiti a breve. Non l’ho mai richiamata. Non ho mai scritto quel libro. Non lo scriverò mai. Perché? Perché senza l’aiuto della mamma, di Kate e di Martina sarebbe stato come entrare in una casa che non conosci e non avere nemmeno una guida: mi sarebbe piaciuto investigare la perdita, provare a capire come si fa: come si fa a sostenere la mancanza di una presenza, a prenderne la forza, anche solo ad addormentarsi, a sognare, a rifare l'amore. E poi di forzare non avevo voglia. Non ero lì né per convincere né per vendere niente. “Ci hanno proposto anche un documentario” mi disse Paolo. Questo alla fine lo hanno fatto e uscirà a dicembre. Chissà come sarà. Chissà se ci sarà anche Martina.
Già, perché di quel pranzo mi è rimasta la voglia di vedere e parlare anche con lei. Mi è rimasta la sensazione di non aver fatto il possibile per far capire a Rossella e a Kate quanto ci tenessi. Mi è rimasto il saluto finale, ché quando Paolo ti saluta io ci vedo sempre un po’ l’ombra di un saluto che non ha fatto in tempo a dare. E poi mi è rimasto quello che del Sic mi ha davvero conquistato: la famiglia. Ché mio figlio che sussulta mentre dorme, nel momento in cui Marco viene investito mi è rimasto dentro. Come se qualche energia l’avesse smosso. Ché mio figlio dorme ancora con me, come Marco faceva con suo babbo la notte prima delle gare. Anche se era ormai grande. E c’è una frase di Paolo che mi colpisce: “Con Marco abbiamo passato 26 anni bellissimi”. Si concentra su ciò che hanno vissuto, non su ciò che manca. Ed è potente come cosa. Quello che è stato è una risorsa, è prezioso, è qualcosa che riempie e non toglie. Tutto passa, niente resta, la pace che matura nella nostra anima quando ti concentri su ciò che ti è stato donato e non su ciò che ti è stato tolto è tanta, nutre, forse lenisce, forse accarezza e lecca le ferite. Perché dare per scontate le persone che amiamo è l’errore più imperdonabile che esista. Giriamoci verso chi abbiamo accanto e diamogli un bacio. Oggi è un giorno sacro e non perché è morto Marco. Ma perché la morte di Marco ci ricorda questo. Ciao, amico. Grazie ancora.