Ché la gente ti caga solo se vinci, abbina il successo al fatto di arrivare primo, di avere i soldi, like follower e fama, ché ce ne accorgiamo sempre troppo tardi che invece il successo è realizzarsi, vivere momenti di pace, dormire beato, niente debiti, guardare il mare, essere leggero. Danilo Petrucci è stato il primo pilota MotoGP a vincere una tappa della Dakar. La Dakar è il suo nome. Anche se non si corre più da Parigi al Senegal ma in Arabia Saudita. È icona, è epica, è tragedia, è sintesi, evoluzione e metafora di ciò che l’essere umano fa dalla notte dei tempi: emigra, cerca qualcosa, rischia, compie traversate nel deserto, sfida sabbia, polvere, vento, freddo, caldo, tutto, resta vivo. E sopravvivere, ha scritto qualcuno, è il primo requisito per poi trionfare.
Danilo è un bravo ragazzo. E in quel bravo c’è il suo limite e il suo riconoscimento. In MotoGP trova una moto di merda, butta giù il magone e si impegna nonostante tutto, ed ecco il riconoscimento: va nel team satellite della Ducati, un secondo posto e poi, finalmente, la Ducati quella vera, ufficiale, però con il timbro addosso del gregario. Nel 2019 vince due gare, entrambe lottando con il suo compagno di squadra Andrea Dovizioso e uno come Marc Marquez. Sul podio piange come un bambino. Ma non c’è niente da fare, per quelle vittorie quasi deve chiedere scusa. Perché è un bravo ragazzo e perché è la seconda guida del Dovi. Psicologicamente pare non reggere il colpo. Va in KTM, stagione difficile, moto difficile ma brand ambizioso. Risultato: lui licenziato.
Danilo è un pilota alto, pesante, in cerca di qualcosa che, come tutti, è la propria dimensione. Lui in fuoristrada va forte, col cross se l’è sempre cavata bene, al ranch di Valentino Rossi è un selvaggio, KTM gli offre di fare la Dakar, è una follia ma solo con le follie si scrivono le storie che meritano di essere raccontate. E poi il peso, la manetta, l’altezza qui aiutano, non sono un limite. Ed essere un bravo ragazzo non c’entra niente ché la gara si fa soprattutto dentro se stesso, con se stesso, in solitudine. Però, ha scritto bene chi ha scritto che nella Dakar, in poco tempo, rivive tutti gli elementi della sua carriera: si rompe l’astragalo destro nei test, si riprende, è positivo al Covid, non può partire, all’ultimo test finalmente è negativo. E in Arabia Saudita è tra i primi, poi la moto si scassa, perde cellulare, carta di credito, è solo ma sa come fare, è già uscito da quella condizione depressa, e ci esce un’altra volta. Fino alla vittoria.
Non importa come andrà a finire questa storia. Se Danilo vincerà altre tappe oppure no. La sua impresa si nutre di picchi raggiunti a fatica e questo ci basti, perché io di moto non me ne intendo come gli esperti, di Dakar meno di zero, ma studio e conosco l’epica, la narrativa, la letteratura. Quello che sta facendo Danilo, quello che comunica con la sua faccia che fa di tutto per nascondere le pupille, ha le caratteristiche dell’epica. Ho visto The Tender Bar ieri sera, autobiografia di uno scrittore, regia di George Clooney. C’è un professore di Yale che spiega come l’Iliade e l’Odissea sono storie di ritorno a casa. Siamo tutti così, da sempre, ancora oggi: cerchiamo di tornare a casa. Cerchiamo una dimensione, la nostra, a dispetto di chi ci vuole vincenti sempre, performanti sempre, sempre in prima classe. Danilo Petrucci racconta questo di noi: trovare casa, il proprio spazio, nel nostro tempo, è questo il vero successo. Per vivere momenti di pace in mezzo a tempeste. E fanculo il resto.