Il mondo delle moto è un mondo chiuso, conservatore, difficilmente disposto ad accogliere qualunque tipo di novità possa in qualche maniera contaminarne l’essenza. Se fra le auto, ad esempio, l’idea che un brand possa rappresentare soltanto una delle espressioni di un più ampio modo di intendere la vita, la commistione tra moto e lifestyle è qualcosa di decisamente più recente.
Tra i casi di scuola, figura il debutto della linea Scrambler, marchiata Ducati. Un brand che aveva fatto della performance e, in questo senso, proprio del prodotto, la sua espressione più significativa, ha deciso di dare forma a qualcosa di totalmente differente. Una moto pensata, per la prima volta, non tanto per eccellere, quanto per manifestare in maniera tangibile una sensazione del tutto impalpabile come il divertimento, la gioia di vivere. Del gruppo di lavoro che ha dato vita al concept “Land of Joy” - lo slogan associato al debutto di quella nuova moto, nel 2015 - faceva parte anche Angelo Marino. Classe 1982, bolognese D.O.C., ha fatto il suo ingresso in Ducati nel 2010, prima di prendere parte alla start-up che ha segnato - se non altro, da un punto di vista commerciale - la storia recente del marchio di Borgo Panigale. Un’esperienza che è stata il viatico per il suo coinvolgimento in una più ampia opera di riassetto dei reparti di Comunicazione e Marketing di Ducati, e che l’ha visto chiudere la sua esperienza in rosso, lo scorso anno, nei panni di Global Head of Brand & Corporate Communications. Un percorso che lo ha portato a intraprendere una nuova sfida, in un settore diverso dall’automotive.
Dallo scorso ottobre, infatti, Angelo è il nuovo Chief Communications Officer di Macron, marchio di abbigliamento sportivo, noto al grande pubblico soprattutto per la fornitura di materiale tecnico ad alcuni dei più importanti club di Serie A, impegnato, tuttavia, anche nel rugby, nel basket e nella pallavolo. Un ideale cerchio che si chiude, insomma, con l’approdo, dal mondo delle moto, a quello del lifestyle, di chi ha sempre fatto di tutto affinché il mondo moto si contaminasse proprio con quello del lifestyle.
Lo abbiamo incontrato per farci raccontare questa parabola nei suoi nuovi uffici, nella modernissima sede di Macron, a Valsamoggia, in provincia di Bologna. L’ultima volta che ci era capitato di intravederlo si trovava a bordo pista, a Valencia, durante il giro d’onore di Pecco Bagnaia, neo campione del mondo, per la seconda volta, della classe MotoGP.
Diciamo che se l’idea era di congratularti in privato, non ci siete riusciti. «L'avevo promesso a Pecco e a tutti quelli del team. Anche perché, fortunatamente, ho comunque fatto parte di quel gruppo per nove decimi della stagione. Mi faceva piacere essere presente e sono stato anche molto contento di come mi hanno accolto: non mi hanno fatto sentire neanche per un secondo come se non fossi più parte della squadra».Cosa ti piace di Pecco? «È molto coerente, molto fedele a sé stesso, nel bene e nel male. Anche le persone che gli sono attorno sono davvero speciali. Domizia, Carola… anche loro vivono lo stress di una stagione intera, con l’aggravante di non poter fare nulla per deciderne il destino. Perché se Pecco fa un errore, il giorno dopo è di nuovo in pista. Loro possono solo stare nel box e sperare che vada tutto per il meglio. È per questo che vedere la loro gioia quando si lasciano andare è così bello. A maggior ragione quest’anno, dopo quello che è successo a Barcellona…». Eri con loro durante quel week-end? «Sì, ero nel box in quel momento, con tutto il resto della squadra». Una bella botta, dal punto di vista emotivo, immagino. «È stato tutto molto toccante. Sai, già quando riguardando i replay abbiamo capito che la moto di Binder gli era passata sopra le gambe, in qualche maniera abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Nella peggiore delle ipotesi poteva essersi rotto qualcosa. Ma in quel momento lì, quando l’abbiamo visto cadere e abbiamo capito che qualcuno avrebbe potuto investirlo, il ricordo di quello che era successo a Simoncelli è riaffiorato nella testa di molti di noi».
Fa sempre impressione vedere quanta della gente che lavora a Borgo Panigale, anche in ruoli manageriali, sia presente fisicamente alle gare. Tu, ad esempio, perché eri a Barcellona? «Chi lavora in Ducati è appassionato di moto. E se tu sei appassionato di moto, poter essere lì, poter prendere parte anche a quel momento di altissima espressione aziendale che è la MotoGP, è il massimo che tu possa chiedere. Nel mio caso, come responsabile della comunicazione brand e corporate, avevo il compito di valorizzare quanto più possibile, anche dal punto di vista del brand, quello che è il massimo investimento in termini di marketing per Ducati, ovvero la MotoGP. Negli ultimi anni, ad esempio, avevamo introdotto quelle che chiamavamo le “media dinner”: eventi che ci servivano per illustrare alla stampa tematiche aziendali, sfruttando la “porta” delle corse». Come sei arrivato a ricoprire questo ruolo in Ducati? «Prima di arrivare in azienda avevo un’ agenzia di comunicazione, in società con mio fratello e un altro socio. Io sono sempre stato un “calciofilo” ma sono sempre stato anche molto appassionato di moto. Quando Valentino ha firmato per Ducati, da valentiniano super legato al mio territorio ho deciso che avrei voluto essere parte di quella avventura». Come ci sei riuscito? «Ho risposto a un annuncio per una posizione come stagista copywriter». Un bel passo indietro, quindi… «Sulla carta sì, ma quello che mi interessava era di potermi mettere in luce. Sono entrato in azienda e dopo lo stage ho continuato a lavorare per il “Creative Center”». E poi? «Dopo due anni, circa, mi è stato proposto di entrare a far parte del team che si sarebbe occupato della start-up del progetto Scrambler, come responsabile digital marketing e comunicazione». Il turning point della tua carriera? «Assolutamente. La nascita del brand Scrambler, all’interno di Ducati, mi ha permesso di vedere applicate nella realtà tutta una serie di strategie e modalità di approccio al lavoro che all’epoca si studiavano soprattutto sui libri di scuola».
Tipo? «Una gerarchia molto “orizzontale” e un ambiente informale in cui il divertimento rappresenta un valore per il contesto lavorativo». Il progetto Scrambler, per altro, ebbe un grande successo. Evidentemente quel team e quel modo di lavorare funzionava davvero. «Eravamo in quattro: Mario, Claudio, Rocco e Io, più qualche altro giovane e grintoso collega. Diventammo presto amici e il nostro affiatamento ha di sicuro aiutato a partorire qualcosa di bello. Anche se ora ognuno ha preso la sua strada ci sentiamo ancora tutti molto spesso. Conta che nei primi tre anni (dal 2015 al 2017), Scrambler rappresentava quasi un terzo delle vendite totali di Ducati - circa 18.000 moto su 50.000 vendute all’epoca». Eravate un corpo estraneo, all’interno di Ducati? «Senza il supporto di tutta l’Azienda e di tanti altri colleghi Ducati non sarebbe stato possibile tutto questo, però sicuramente è stato fondamentale, specialmente nei primi anni, erigere dei “muri” per far capire che Scrambler era e doveva essere qualcosa di diverso dal resto di Ducati. Ciononostante, a posteriori, dopo essermi confrontato con chi ha preso parte a progetti analoghi all’interno di altre aziende (penso a Fiat 500, con De Meo, o al brand Cupra, all’interno del gruppo Volkswagen), ho capito che a un certo punto avremmo forse dovuto aprirci maggiormente verso i nostri colleghi. La diversità che ci caratterizzava potrebbe aver compromesso una più completa comprensione del progetto da parte del resto dell’azienda».
È vero che avevate l'erba per terra in ufficio? «Sì, ma era una cosa che aveva un senso! Abbiamo lavorato a cerchi concentrici: prima dovevamo convincere noi stessi che un mondo diverso fosse possibile. E quindi abbiamo personalizzato il nostro ufficio con l'erba, abbiamo usato un pezzo di un container giallo per ricavarne una parete…». Ma cosa vi dicevano i vostri colleghi? «Ah… che l’erba ce l’eravamo fumata tutta! Oppure ci chiamavano “i ragazzi del Pratello” - il Pratello è una zona universitaria di Bologna. E però, ti dicevo, ragionando per cerchi concentrici, dopo aver personalizzato il nostro ufficio abbiamo fatto un evento riservato agli altri dipendenti Ducati, in cui abbiamo mostrato loro la moto all’interno di un container. Era presente anche la stampa, ma i giornalisti non potevano entrarci dentro. Se volevano informazioni dovevano intervistare i colleghi che l’avevano vista. L’idea era di far sentire tutti parte di qualcosa di nuovo, di un progetto che comunque li riguardava. Dopo qualche tempo questa spinta si è forse un po’ persa. Probabilmente siamo rimasti troppo chiusi in noi stessi…».
Il progetto Scrambler ha avuto un grosso impatto all’interno di Ducati? «Direi di sì ed è stato poi questo uno dei motivi che mi ha portato a cambiare e a compiere il mio ultimo passo, all’interno dell’azienda, spostandomi sul brand and corporate. L’idea era di rendere in qualche maniera un po’ più “arancione” Ducati: contaminare il rosso delle corse, con un po’ del giallo Scrambler. Diciamo che ci siamo riusciti in parte. Forse senza qualche resistenza, questo processo di innovazione avrebbe potuto essere ancora più impattante». Cosa l’ha fermato? «A volte, quando ci si confronta con un gruppo di persone che lavora in maniera differente dalle altre, che porta risultati e che magari lo fa anche divertendosi, c’è la percezione che in quella esperienza ci sia effettivamente qualcosa di buono, ma se non lo vivi fai fatica a comprenderlo realmente nella sua essenza e potrebbero innescarsi anche dei processi che portano a invidie e rancori. Probabilmente, quelle barriere che erano fondamentali all’inizio hanno impedito a tanti di capire cosa di buono ci fosse, per tutti, all’interno di quel progetto. Questo aspetto e poi è coinciso con scelte strategiche aziendali differenti.». In Ducati una figura chiave è quella di Claudio Domenicali. Che rapporto si è instaurato fra voi due? «Probabilmente sono stato una delle persone che negli ultimi due o tre anni ha passato più tempo con lui. Credo che la stima sia reciproca! Claudio è una delle persone più intelligenti con la quale abbia mai avuto a che fare».
Cosa lo rende speciale? «È una persona molto preparata e, se non conosce qualcosa, studia al punto tale da diventare competente anche in quell’ambito. Penso a Scrambler, alle prime volte in cui gli parlavamo di influencer marketing, di Mariano Di Vaio (uno dei primi ambassador di Scrambler, nda)… tornava dopo pochi giorni padroneggiando completamente la materia. Improvvisamente sapeva tutto, anche di quello! In questo trovo sia davvero un esempio, una testimonianza virtuosa di quanto la passione e la competenza possano fungere da motore per raggiungere qualsiasi traguardo. Ovviamente le personalità così forti possono finire per circondarsi, anche senza che ciò dipenda direttamente dalla loro volontà, di persone che non sempre riescono a confrontarsi con loro allo stesso livello». Tu ci riuscivi? «Per me è stato un grande stimolo lavorare con lui, perché ogni volta che dovevo presentare un progetto o parlare con lui dovevo arrivarci nella condizione di essere il più preparato possibile. Detto questo, se io ho qualcosa da dire la dico per come la penso e credo che sia anche questo il contributo che le aziende chiedono a me e a chiunque lavori per loro».
È mai capitato che si arrabbiasse con te? «Qualche rimprovero, ovviamente, è capitato. Diciamo che un frangente tipico in cui lo portavo a innervosirsi era quando mi capitava di supportare fortemente alcune idee o alcuni progetti, magari sull’onda di un’intuizione, sostenendo i miei argomenti in maniera un po’ confusionaria. Una sorta di gioco delle tre carte che finiva per portarlo allo sfinimento e per convincerlo a permettermi di procedere in una o in un’altra direzione. Ecco, in quei casi capitava che mi rimproverasse una mancanza di preparazione sul tema specifico, ma a volte, ammetto, si trattasse di una confusione creata ad arte.» Il più grande complimento che ti ha fatto? «Claudio non è mai stato una persona da grandi complimenti e io non ho mai avuto bisogno di grandi pacche sulle spalle. Sicuramente una delle più grandi soddisfazioni è stato convincerlo ad aprire un profilo LinkedIn e portarlo ad essere, grazie al lavoro svolto con Irene Piccinini, il profilo CEO con il maggior engagement in Italia». Qual è il pilota con cui hai legato di più in questi anni in Ducati? «Bagnaia, per tutto quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni. Abbiamo avuto modo di frequentarci in alcune occasioni anche al di fuori del lavoro, del contesto pista, con la mia compagna e con Domizia. Pecco - come Dovi per altro - è una persona molto coerente, molto centrata, uno che non ha mai avuto bisogno di “urlare” per mettersi in mostra, per farsi notare, scimmiottando o cercando di cavalcare qualche trend. E questa è una cosa che mi piace molto di lui. Poi, da un punto di vista strettamente caratteriale, io mi reputo una persona estroversa e, in questo, probabilmente sono più simile a Bastianini. Infatti mi auguro che possa fare bene anche lui il prossimo anno, perché se lo meriterebbe». Cosa succederà l’anno prossimo con Marquez? «Andrà forte, questo è certo. L’ha già dimostrato nei test. Ma Pecco è un campione e lo dimostrerà anche con Marquez, così come farà bene Enea, così come andrà forte Martin. Marc sarà un contender ma non credo dominerà come qualcuno ritiene».
Dopo gli anni in Ducati il tuo percorso professionale ha preso una piega inaspettata. Ora sei Chief Communications Officer di Macron, azienda che probabilmente molti dei nostri lettori conoscono per la fornitura di maglie a numerose squadre di Serie A e non solo. Com’è nata questa occasione? «È nata per caso! Io in Ducati stavo ancora molto bene, ma ad un tratto ho cominciato a ricevere diverse offerte di lavoro. Questo mi ha fatto capire come il mercato del lavoro ritenesse che il momento di cambiare fosse arrivato. E a posteriori, dopo pochi mesi dal mio arrivo in questa azienda, credo di essere stato molto fortunato. In Macron ho trovato un'azienda molto dinamica, ho tutto quello che cercavo e un ritorno probabilmente a certe logiche Scrambler che in parte mi mancavano». Come descriveresti Macron a qualcuno che non vi conosce? «Macron produce abbigliamento sportivo per team "from grassroots, to pro”, dall’erba dei campetti di provincia, fino ai professionisti. Non c’è altro marchio di sport al mondo che vesta ogni weekend, in molteplici discipline tra amatoriali e pro, così tanti team sportivi, certificando attraverso una maglia l’appartenenza di un singolo atleta a una squadra. “Become your own hero” è l’altro payoff dell’azienda, quello che esprime la vision di Macron: goditi lo sport, gioca, dai il meglio di te, da solo o in squadra, fallo per provare sulla tua pelle, con il nostro abbigliamento, le stesse sensazioni che provano i campioni. Vesti i panni dei tuoi eroi, diventa come loro». Quali sono i prodotti o le linee di maggior successo per Macron? «Il core del nostro business è rappresentato da due filoni: da una parte quelli che noi chiamiamo member, lo sportivo che veste Macron perché la società per cui gioca ha scelto come fornitore la nostra azienda. Accanto ai member abbiamo i supporter, cioè tutti coloro che comprano Macron perché sono tifosi delle squadre che utilizzano i nostri prodotti. La grande sfida che ci aspetta nei prossimi anni, lavorando sull’identità del brand e sui suoi valori, è di dare forma a una community di clienti che sceglie Macron per il proprio abbigliamento sportivo. Il Padel è molto interessante da questo punto di vista e potrebbe giocare un ruolo importante». Come farlo? «Ciò che ci avvantaggia, in questo processo di ampliamento, è il fatto che una nutrita base di consumatori per noi già esiste. Chi acquista il merchandising ufficiale della propria squadra del cuore, compra già il nostro abbigliamento. Quello che dobbiamo fare è convincere queste persone che quella stessa qualità che hanno trovato nella replica della maglia del proprio club, potranno trovarla anche in altri prodotti, adatti allo sport che loro stessi praticano nella loro quotidianità».
È vero che il livello di assistenza che Macron riesce ad offrire alle sue squadre, non ha eguali in nessun altro marchio? «Qualunque club ci approcci come cliente può sedersi a un tavolo con il nostro centro stile e decidere come realizzare le proprie maglie nei più minimi dettagli. Non a caso, la seconda maglia del Napoli della stagione 2013/2014 è stata la prima maglia camouflage adottata da un club professionistico (ed è la seconda maglia più venduta di sempre di quella squadra). Nel caso dei club dilettantistici, invece, il grande vantaggio è che Macron mette a disposizione di ognuno di loro una store virtuale dove tutti (atleti, famiglie, interessati a vario titolo) possono comprare e ricevere direttamente a casa la maglia della propria squadra di riferimento». Un’altra particolarità è il vostro modello di business. Mi hai mostrato un magazzino enorme e mi hai spiegato che è una peculiarità del vostro brand. In che senso? «Sono oltre 16.000 metri quadri e presto la sua superficie sarà raddoppiata. La particolarità sta nel fatto che i nostri 170 monomarca sparsi in tutto il mondo, ma anche gli sport hub in cui i nostri prodotti sono presenti, non hanno la necessità di provvedere allo stock. Ciò permette un efficientamento generale, in termini di costi, sia per loro che per noi, e inoltre consente a chi vende di concentrarsi sulla relazione con i club». Perché gli altri brand non fanno lo stesso? «Puntano su altri elementi o probabilmente perché non a tutti è venuto in mente di dare forma a un modello di business come questo, la cui paternità è da ricondurre al nostro Amministratore Delegato Gianluca Pavanello. Gianluca ha preso in mano l’azienda nel 2005 e da allora la crescita è stata nell’ordine del 20% ogni anno fino ai 200 milioni del 2023. Competente, focalizzato e appassionato, parla sempre con cognizione di causa, in molti aspetti mi ricorda Claudio Domenicali.». Evidentemente funziona tutto molto bene se, tra le altre, quest'anno riuscirete, a vostro modo, ad essere presenti anche al Super Bowl. «È davvero una grande emozione vedere il Macron Hero (il nome del logo dell’azienda, nda) in uno spot mostrato in uno degli eventi più importanti al mondo come il Super Bowl. Di questo non possiamo che essere grati e ringraziare il nostro partner Wrexham AFC e soprattutto STōK Cold Brew per l’idea prestigiosa e originale che ci ha in qualche modo coinvolti. Nello spot Anthony Hopkins è presente nelle vesti del drago Wrex, mascotte della club gallese Wrexham AFC, di cui Macron è fornitore. Il Wrexham è stato acquistato, nel 2021, dagli attori Rob McElhenney e Ryan Raynolds, e nel 2023 ha conquistato una storica promozione in League Two, campionato nel quale attualmente occupa un brillante quarto posto in classifica. Si tratta di un club che ha attirato un enrome attenzione su di sé negli ultimi tempi, grazie al grande successo della docuserie sportiva "Welcome to Wrexham", già confermata per la terza stagione. Il brand Macron è sempre più riconosciuto e apprezzato e la nostra credibilità è costruita sull’ossessione per la qualità e l’innovazione dei prodotti. Dai campi di provincia fino a uno spot al SuperBowl.».
Ecco perché sei venuto qui. Ti piacciono le cose facili! (ride, nda) «Esatto! La verità è che mi piace molto l’idea di lavorare a progetti legati al territorio. Per una persona nata e cresciuta a Bologna, poter essere parte prima di un mondo come Ducati e oggi di Macron è sicuramente motivo d’orgoglio. Prima ce la vedevamo con Honda e Yamaha adesso ci sono Nike e Adidas. Pensare che un'azienda della mia città, espressione dell’italianità, possa competere con colossi di queste dimensioni è uno stimolo in più, ogni giorno». In tutto ciò, siccome ti annoiavi, nel 2020 hai anche scritto un libro: “Le chiavi di casa”, un romanzo che vede al centro il tema della genitorialità e i cui ricavati sono destinati (sul serio) all’Associazione Genitori Ematologia Oncologia Pediatrica. A quando il prossimo e, soprattutto, su cosa? «Al momento non c’è nulla di concreto in programma. Di sicuro, prima o poi, mi piacerebbe raccontare i primi due anni del periodo Scrambler. Sarebbe una bella occasione per cercare di far capire alla gente come, quando fai le cose divertendoti e rimanendo te stesso, al di là di tanta retorica, le cose riescono meglio per davvero».