Erano previste 50mila adesioni, ma proprio alle 18, quando in tempi non sospetti i vicoli della Capitale si sarebbero animati dell’atmosfera tipica dell’aperitivo, ieri le saracinesche di ristoranti, bar e locali si sono abbassate. Solo qua e là, un neon a intermittenza e le luci basse illuminavano le prime ordinazioni del delivery su tavoli sparecchiati. Per i ristoratori e gestori di locali, il Dpcm e il decreto approvati nei giorni scorsi sono l’ennesimo cappio al collo di un settore in affanno da dieci mesi: obbligo di chiusura nelle zone rosse e arancioni, apertura contingentata fino alle 18 in quelle gialle con divieto di asporto di cibi e bevande nei bar dopo le 18. Le sigle di categoria pensano a un fronte di impegno comune con le forze di governo, ma in tanti pensano sia giunta l’ora di fare da soli.
L’iniziativa social IoApro1501 è nata con questo scopo: aprire dalle ore 18 del 15 gennaio la propria attività nel pieno rispetto delle norme igienico-sanitarie, ma contro le prescrizioni del governo. Eppure ieri, giunta la prova del nove, fra i portavoce dell’istanza a Roma hanno aderito in pochissimi. E così l’azione, nata dalla “resistenza” del ristoratore fiorentino Momi nei mesi scorsi, rischia di rivelarsi un buco nell’acqua a livello nazionale, nonostante il supporto di clienti affamati e presunti avvocati.
La sensazione è che l’entusiasmo sui canali digitali non corrisponda alla realtà effettiva. Ieri, nel centro della Capitale, tutti i ristoranti hanno chiuso, tranne quelli preposti al delivery. Nel frattempo, sui canali Telegram impazzava il tam tam dei supporter con tanto di lista di locali “ribelli”. Uno di essi, Il cuore ribelle, a due passi da piazza Repubblica, ieri ha dovuto comunque chiudere: “Sono ancora sotto shock, mi è stato detto di chiudere” ha dichiarato la ristoratrice dietro la porta del locale sottochiave. Il suo, come un’altra manciata di locali, faceva parte di una scarna lista di ristoranti aperti. Eppure, nel mondo reale, la litania dei tavoli sparecchiati continua per tutte le vie del centro, e fa un certo effetto vedere le luci flebili dei locali dove non si ammassano, ma i rider del delivery.
Dall’Esquilino a Roma Nord, i ristoratori intervistati non accolgono clienti e la realtà comincia a farsi strada anche sui social: “Ragazzi ho fatto un giro per Trastevere….oltre ad essere tutto chiuso c’erano 6 pattuglie dei vigili”, “Io apro io apro…Ma do stanno i locali aperti”? scrive qualche cliente romano avvilito, prima di essere interrotto da messaggi che contrattaccano: “Ragazzi non è un flop! Chi ha aperto è PIENO” si ostina a scrivere qualcuno.
Ma quanti hanno aperto in una città che conta 22mila imprese fra bar, ristoranti e stabilimenti (dati FIPE 2018)? Mancano i numeri, e qualcuno menziona locali fuori dal raccordo anulare, impossibili da raggiungere per chi vive in centro città. C’è chi chiede la lista aggiornata e qualche foto, ma poi arriva la censura: “La chat è piena di spie troll e giornalisti” sospetta qualcuno. Appare la foto di uno scontrino dove si evidenziano solo data e ora: “Buona e civilissima protesta” scrivono, ma l’orario (19:45) e il “3,” che si intravede sfumato alla voce del totale speso appaiono sospetti.
C’è chi giura di aver mangiato bene, ma per farlo è andato fuori Roma, in località Sette Bagni per esempio. Intanto, chi aveva preannunciato aperture, chiude o non risponde al telefono: chiedere info ora è troppo, si invitano le persone contattare in privato: “Uscite di casa ed entrate nei ristoranti” ripete come un mantra uno dei membri più attivi del canale. E così, la protesta che doveva essere al chiaro di luna, si trasforma in una resistenza a metà tra un nulla di fatto e una riunione in stile carbonaro. C’è persino chi suggerisce una parola d’ordine per le prenotazioni, o chi assicura assistenza legale. L’impressione è che a mettere benzina sul fuoco siano, piuttosto, i potenziali clienti. C’è qualche ristoratore che nutre sospetti, che viene attaccato. A un certo punto si fa strada l’idea di “una black list per i ristoratori che non aprono”: oltre al danno, anche la beffa.
A Termini, un tempo crocevia di turisti, il silenzio sembra irreale. Un ristorante ha poche luci accese, il gestore spiega che non resta che il delivery per tirare a campare: “Non sappiamo ancora come dovremo comportarci domenica” commenta, e sua figlia aggiunge: “Finora abbiamo campato di turisti, ora i soldi stanno finendo”. Alcuni locali spengono le luci. Molti di loro non sanno nemmeno se riusciranno ad aprire o pagare l’affitto e i propri dipendenti nei prossimi mesi: per giunta, le aperture a singhiozzo non hanno giovato e molti lamentano l’inadeguatezza dei ristori.
La Federazione Italiana Pubblici Esercenti condanna le manifestazioni: “Lasciano il tempo che trovano e, in più, vanno contro normative a cui nessun legale può opporsi” spiega il vicepresidente FIPE, Matteo Musacci, su Gambero Rosso Ma sui canali Telegram assicurano: “Non c’è nessuna legge che limita o sospende le vostre licenze, e non essendoci legge non esiste contravvenzione!” si infiamma qualcuno. “Però è un po’ fumoso. Gli avvocati se vogliono veramente contribuire devono essere molto chiari […] Io devo sapere quanto devo pagare” scrive qualcun altro