La prossima volta che qualcuno mi caga il caz*o su quanto vuole essere pagato senza prima meritarselo, che si lamenta di non essere apprezzato né valorizzato, che dà la colpa a qualcun altro, che scrive in prima persona, usa troppe volte il pronome io e crede di essere già arrivato, be’, gli diro di studiarsi la storia di Ettore Mo, che ci ha lasciato in queste ore, e di non rompere i coglioni. Mo, il più grande reporter di guerra, ma sarebbe meglio dire reporter e basta, è scomparso a 91 anni. Su di lui nello scorso compleanno era usciti due articoli sul Corriere della Sera, riporto qui le parti che mi hanno colpito di più.
Prima di diventare ciò che è diventato, Gian Antonio Stella (un altro gigante) racconta che Ettore Mo è stato: un bambino che leggeva libri di avventura, figlio di falegname, istruttore in un istituto per non vedenti che il pomeriggio faceva giocare a calcio con un barattolo di latta - così grazie al rumore si orientavano e alle testate ridevano - e la sera divertire nei bordelli dove le signorine dicevano: «Toca, toca». Poi barista all’isola di Jersey, sguattero in un ristorante di Parigi, bibliotecario ad Amburgo, maestro di francese a Madrid, cantante napoletano a Stoccolma e in un posto chiamato Pitea, a duecento chilometri dal circolo polare artico, infermiere in un ospedale per incurabili in Inghilterra - mettendo cateteri e rifacendo letti a gente che spirava, infine cameriere sul transatlantico Orsova, tra Pacifico, Fiji, Hawai, Giappone, Hong Kong, ovunque.
Scriveva racconti di viaggio, li mandava a uno che poco dopo sarebbe diventato direttore del Corriere, Pietro Ottone. Che dopo un po’ gli risponde: «Mo, credo che lei sia persona atta a fare questo mestiere». Atta. Il 10 giugno 1962, dopo una sbornia colossale nell’ultima notte da marinaio, si presenta in redazione. Ha detto: «Ero l’ultimo degli ultimi, i miei pezzi non venivano nemmeno siglati». Seguono cinque anni - cinque! - al Messaggero di Roma senza scrivere una riga, correggeva le bozze degli altri. Un giorno, tornato al Corriere, chiede all’allora direttore Giovanni Spadolini, poi presidente del Senato, di fare qualche didascalia per la sezione esteri visto che sapeva le lingue. Spadolini gli risponde: «Mo, un po’ di umiltà». Spadolini era alto e piazzato. Mo un metro e 57. Esce dalla sua stanza a pezzi. Lavora, dimostra. Ottiene. Qualche anno dopo è il più bravo di tutti. Amare ciò che si fa, impegnarsi, lavorare, non rompere troppo i coglioni, ecco ciò che è fondamentale.
Nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, luogo della feroce strage israeliana, è il primo ad arrivare. Scrive: «La bambina è come accartocciata sopra una pietra, la testa nella terra, uno squarcio nel braccio sinistro, da cui esce una materia nera, strisce di sangue non ancora seccato sulle gambe e sui piedini. Accanto alla testa c’è un piede di donna, con le unghie smaltate di rosso…». No retorica. No aggettivi. Zero avverbi. Il vangelo. A Jalalabad sta per morire, raccolto dietro a un terrapieno scrive un messaggio di addio per la sua compagna di vita Christine. Cosa? «E chi se lo ricorda…». Elisabetta Rosaspina, altra grande giornalista, era andata a trovarlo a casa, ad Arona. Gli aveva chiesto: vorresti essere in Ucraina adesso? Lui, seduto sulla poltrona, ha tirato un’occhiata oltre i vetri, verso il lago Maggiore, ha sorriso e ha risposto con candore: «No». C’è un tempo per tutto. Mo è morto a 91 anni. Abbiamo già detto che è alto 1 metro e 57 ma quelli piccoli, in realtà, siamo noi.