Si dirà che è un’etichetta del riassunto, una formula che funziona e che fanno tutti così. Che tanto vale continuare in questa maniera, se la gente che legge i giornali vuole la pagella bisogna pur dargliela. Ci sono pagelle per tutto lo scibile umano, adesso è il momento di Sanremo e allora il Corriere ne fa addirittura due per la stessa sera, una sull’esibizione e un’altra con “i voti ai look”. Il Fatto Quotidiano si scaglia contro la regia, etichettata come “deludente”. Domani titola con autorevolezza “Le pagelle di Selvaggia Lucarelli”. Le pagelle le fanno anche le agenzie di stampa: Ansa, AGI, AdnKronos.
Una volta invece le pagelle le facevano gli insegnanti, i maestri. Dopo aver passato un anno a spiegare la loro materia ai ragazzi in maniera più o meno dignitosa, cercavano di mettere insieme una valutazione. Un momento un po’ sacro per tutti e non solo per l'avvicinarsi delle vacanze, perché le pagelle presumono che il voto sia un concorso di colpa tra insegnante e allievo: ti ho insegnato bene, ti ho insegnato male? E, se ti ho insegnato male, quanto è colpa mia? È uno scambio che avvicina e umanizza tanto chi insegna quanto chi impara e, se è vero che al liceo questo rapporto va scemando, alla scuola dell'obbligo è intenso e c’è davvero, così come c’è davvero nei rapporti tra genitori e figli. Maleducato, lo sa chiunque abbia figli abbastanza grandi, è il participio passato del verbo educare.
A scuola erano sacre perché gli insegnanti si mettevano d’accordo per dare i voti, c’era della mediazione perché da quei numeri sarebbe dipeso anche un po’ l’andamento dei ragazzi, il loro futuro: con questo non esageriamo perché altrimenti si monta la testa, a questo diamo una spinta perché ha bisogno di crederci. Il voto era un po’ una casella e un po’ una scommessa pedagogica. C’era, almeno col senno di poi, grande umanità in tutta questa storia.
Quelle dei giornali invece funzionano perché regalano a chi le legge il sottile piacere di non essere giudicato almeno per una volta e, dopo vent’anni passati a scuola, è una bella soddisfazione. Ad essere giudicati, finalmente, sono i vipponi che hanno tutto, quelli che ce l’hanno fatta: tié, beccati un quattro, chissà tua madre che dice. Se questo non bastasse, dall’altra parte c’è la gioia di chi le scrive, felice di scavalcare la barricata, munirsi di penna rossa e dare i numeri. Ed è così che la pagella sul giornale diventa il trionfo del tuttologo, di quello che non sa fare ma insegna, critica, massimo esponente dell’Italia di virologi, ingegneri e allenatori. Diamo i voti così, a cazzo di cane, come se fosse normale farlo senza cognizione di causa. Le pagelle calcistiche potrebbe farle Vieri sulla sua Bobo Tv, a lui ne hanno fatte tante, ma per qualche motivo preferisce evitare.
Mica si può attaccare chi le scrive però. Chi le scrive, in questi casi, di mestiere produce intrattenimento. Ad infastidire è la completa sostituzione del termine: no, chi fa le pagelle non è un maestro, ha solo bisogno di scrivere, di lavorare. E no, il suo lavoro non è insegnare e quelli che giudica non sono i suoi allievi, anche se qualcuno corre il rischio di dimenticarsene. Chiamiamole scrivelle, mangelle, tarantelle. Ma le pagelle lasciamole ai maestri.