Le radio locali a Roma sono come la materia oscura per l’universo. Sballano i modelli standard, deformano lo spazio tempo, ma sono invisibili ad un osservatore esterno. Solo le metafore aiutano a spiegare che cosa siano le radio romane per chi non vive a Roma. Il gargantuesco buco nero in cui la polarizzazione tocca i massimi livelli è RadioRadio.
C’è chi la idolatra come baluardo di libertà, c’è chi la odia perché palude populista. Dentro RadioRadio c’è tutto. La ascolto in modo voyeuristico minimo dal 1999. Sono un tossico di RadioRadio. Spesso penso di essere l’unico ascoltatore lucido di RadioRadio. Inizia presto la mattina, in modo così subliminale che credo influenzi l’umore di migliaia di persone in città. Ti senti polemico e non sai perché, ma è solo che su RadioRadio stanno già a fare una polemica velenosissima. Divagano dal calcio mercato per parlare di Europa League. Il demiurgo riporta tutti sul tema caldo, quello che interessa alla gente.
Infatti RadioRadio parla di calcio, anche quando non parla di calcio e non parla di calcio anche quando ne parla. Proprio come ogni singola conversazione che avviene a Roma. A Roma se non parli anche di calcio nessuno ti sente, e se ti sente, non ti ascolta o non ti capisce o proprio non ti si incula.
Quando ho letto in nome del demiurgo di RadioRadio, Ilario Di Giovanbattista, su MOW, perché un vecchio opinionista della radio è diventato il candidato sindaco del centrodestra, m’è esploso il cervello. MOW-RadioRadio-sindaco di Roma nella stessa frase mi ha fritto il cervello. E’ come se un personaggio secondario di un fumetto che leggevi da bambino è diventato presidente della repubblica. Come se uno dei matti del manicomio in cui facevi l’inserviente prende il premio nobel per l’economia. E’ un colpo.
Io RadioRadio la so spiegare solo per flash.
Per me è come Vicolo Cannery per John Steinbeck: è un poema, un fetore, un rumore irritante, un tono, un'abitudine, una nostalgia. I suoi ospiti sono bagasce, ruffiani, giocatori, ma vuol dire santi, martiri, uomini di Dio.
Chez Ilario ha creato un network di “amiche aziende”, un cerchio magico in cui se entri ti danno la mortadella, il chinotto, le vacanze, gli avvocati, i muri di casa, compro oro, diete dimagranti, copertura medica, gli occhiali. E’ lo stesso principio di Apple con il sistema chiuso e lo store e le app e i device. Solo fatto meglio. Steve Jobs in confronto era un pipparolo. Ilario Di Giovanbattista è il più grande comunicatore dai tempi di Berlusconi, e ognuno la legga come un complimento o un avvertimento, vale in tutti e due i sensi.
A proposito. In tutti i sensi. RadioRadio è gentista, qualunquista, populista. Ilario a volte è smaccatamente paraculo, con un istinto perfetto nel capire da che parte tira la gente. Lo sa prima. Lo sa meglio. Davanti a lui, chiunque diventa la caricatura di un tremebondo radical chic. Se glielo chiedi, ti dicono che sono apolitici, come tutti quelli profondamente reazionari. Ma non mi stupirei in futuro una svolta anarchica o marxista. Nel corso degli anni RadioRadio ha dato spago a qualsiasi cosa storta e controversa di cui ha incrociato il cammino. Il Metodo di Bella, Diego Fusaro, i negazionisti del covid, Nantas Salvalaggio che è quello che ha lanciato Vasco Rossi insultandolo.
Ma sotto lo strato di fango c’è il petrolio infiammabile di una delle versioni più spinte di libertà di parola e critica. Se esistesse davvero il pensiero unico, RadioRadio sarebbe il posto dove viene demolito, dove tutto diventa relativo e dietro ogni opinione c’è una provocazione. L’opposto, l’antipodo, l’antidoto. E’ una feroce palestra del pensiero. Ti costringe a strusciare il muso contro la pancia del paese. Puoi essere studiato quanto ti pare, ma ci devi fare i conti. E’ un osservatorio sociale che ti sbatte in faccia, per esempio, quanto sia sdrucciolevole il politically correct. Per una persona che vive in una bolla che per brevità definiremo “radical chic” è una orrenda umiliazione e un grande bagno di umiltà al tempo stesso. Impossibile definire i confini.
Per esempio. Due slot del roster sono occupati da Mario Tozzi, divulgatore e Luigia Luciani, giornalista. Nessuno saprà mai se stanno lì solo come fantocci per poter dire che c’è “contraddittorio” o se invece perché è giusto che sia così, perché la radio crede sinceramente in loro. Ogni volta che aprono bocca, la radio si assume il rischio di perdere un botto di ascoltatori, ma non accade. In questo mistero c’è la forza di entrambi, e del magmatico equilibrismo della linea editoriale. E’ una cosa che andrebbe fatta studiare nelle università. Dopo ore di farneticazioni ogni loro parola ha l’effetto del lume della ragione nelle tenebre del misticismo. Quando cominci a perdere il lume della ragione, arrivano loro due a riportare equilibrio. Ovviamente è un abbraccio mortale, uno yin e jang inscindibile. Senza le tenebre non c’è luce, la definizione di ombra dipende dalla luce.
Una volta Tozzi ha spiegato il metodo scientifico a un negazionista. Ha detto che si basa sul pubblicare su riviste scientifiche una teoria e lasciare che la comunità scientifica le confermi o le confuti. Uno di RadioRadio gli ha risposto che non si fida di queste riviste, chi lo sa che interessi c’hanno. Ha ricacciato perfino Popper, usato come arma impropria. Tozzi si è incazzato a morte, come spesso si incazza coi boomer che la mattina chiamano solo per dirgli che tipo ha rotto il cazzo col cambiamento climatico e il non mangiare animali. E lui li chiama imbecilli. L'arbitro qui non fischia mai fallo.
La Luciani porta la fiaccola di un pensiero razionale, liberal, dei valori di una società aperta e inclusiva, e si piglia gli sgambetti e i pestoncini degli interlocutori con un classe e una compostezza olimpica. Io mi avveleno e mi chiedo perché debba sopportare, è una indecenza. Ma io non capisco un cazzo. So di non sapere. Perché è così che avviene una conversazione fuori dalla tua bella bolla. E’ perfettamente normale dire quello che dice la Luciani in quel conteso, è perfettamente normale che si becchi i mozzichi cripto-trumpiani, sennò vai al bar con gli amichetti tuoi, dove la pensano tutti come te.
Ma il mio momento preferito di RadioRadio sono gli interventi di Tony Damascelli, Franco Melli e Furio Focolari. Nomi probabilmente oscuri per l’ascoltatore mainstream, vecchi califfi di un giornalismo sportivo che fu, in diversi modi ostracizzati dal "sistema" e dai lustrini di Sky e Dazn. Ma con le loro provocazioni smaccate, le loro opinioni apparentemente demode, gli scambi ora criptici ora caustici, rappresentano il meglio della critica calcistica attualmente in circolazione. Quando non costretti a seguire l’argomento del giorno e lasciati liberi di divagare, danno vita una conversazione fatta di una fitta rete di triangolazioni che in modo apparentemente lento risale il campo del cervello e domina il ritmo della narrazione. Nel bel mezzo del lockdown, a mesi di distanza da qualsiasi evento sportivo passato o futuro, si lanciarono in disquisizioni meravigliose, come quando cercarono di capire se Roma avesse smesso di essere stupenda e meravigliosa nell’autunno del 1976 o nella primavera del 1978.
Ancora. Sentire Furio Focolari ammettere con aplomb novecentesco affermare di “essere un liberale, sicuramente anti fascista” dopo migliaia di minuti di opinioni da fan di Trump & Putin, fa squagliare dalla commozione. Franco Melli sembra solo un vecchio un po’ matto, ma ci fa, non c’è, ancora si mette tutti nel taschino, abboccano, qualcuno lo prende in giro, lui tira la lenza e tutti a pendere come triglie all’amo della sua romanità. Anni fa, d’estate, in pieno calciomercato, c’era Mario Sconcerti che per ore parlava di Gesù Cristo e di quello che c’era scritto nei vangeli apocrifi, con gli ascoltatori che chiamavano inferociti. Ma non tanto quanto come quella volta in cui disse che Adriano, per essere sostenibile, di gol non ne doveva fare 18, ma 50.
“Scusa ma io associo,
ai pomeriggi buttati sul letto
a non coltivare il talento,
a non imparare una cosa nuova,
un enorme spreco di potenziale,
ascoltare RadioRadio”.