Eric Zemmour, popolarissimo giornalista di solito definito “di estrema destra”, si è candidato ufficialmente alle presidenziali francesi, dopo mesi in cui in realtà aveva già cominciato una sorta di campagna elettorale con annessa promozione del suo ultimo libro. Lo ha fatto con un video di dieci minuti intitolato “Il tempo di agire” in cui vengono toccati i temi portanti della visione di Zemmour (come la contrarietà al multiculturalismo, al femminismo e all’accoglienza indiscriminata degli immigrati), con la sinfonia numero 7 di Beethoven come colonna sonora e con immagini evocative di Giovanna d’Arco, Luigi XIV, Napoleone e Charles de Gaulle. E, a proposito di De Gaulle, la scenografia (libreria sullo sfondo, luci scure e microfono vintage) e i toni ricordano quelli del generale De Gaulle quando nel 1940 si appellò ai francesi affinché si battessero contro i nazisti.
Nel video, il polemista autore di vari besteller legge ai francesi un messaggio drammatico e nostalgico: “Non è più tempo di riformare la Francia ma di salvarla”, dice. Zemmour spiega di essersi “accontentato per molto tempo del ruolo di giornalista, di scrittore, di Cassandra” credendo “che un politico avrebbe preso la torcia” che lui gli stava passando: “Mi dicevo: a ognuno il suo mestiere, il suo ruolo, la sua lotta. Mi sono ripreso da questa illusione […] Ho capito che nessun politico era pronto a riprendere in mano il destino del nostro paese” e che “destra e sinistra hanno mentito”.
Zemmour, storica firma del Figaro e dal 2019 protagonista su Cnews del programma più controverso della televisione francese, Face à l’Info, mischia orgoglio nazionalista e temi identitari, cita Cartesio e Rousseau, Brigitte Bardot e Alain Delon. Rievoca la Grandeur, promette di “restituire potere al popolo” e dice che i francesi “non si lasceranno sostituire” (il riferimento è alla “sostituzione etnica”) e che “non è più tempo di riformare la Francia, ma di salvarla”. Zemmour fa appello allo spirito combattivo dei francesi e delinea per loro una missione: battersi per “recuperare la sovranità” e lottare per smettere di “sentirsi stranieri nel proprio Paese”.
Zemmour è un paladino del politicamente scorretto ed è stato difeso dal grande scrittore Michel Houellebecq (a sua volta amato-odiato, ma a differenza di Zemmour premiato), che lo ha definito “la figura più interessante della contemporaneità tra i cattolici non cristiani”.
Per molti Zemmour è un diavolo, se non il diavolo. Le organizzazioni islamiche e quelle della sinistra antirazzista da anni lo trascinano in tribunale, gli islamisti lo hanno minacciato di morte e costretto a girare con la scorta. Già condannato per incitamento all’odio, l’intellettuale autore tra gli altri del “Suicidio francese” ce l’ha con “potenti, benpensanti, élite, giornalisti, politici, sindacalisti, autorità religiose”, con “gli eurocrati” e con “l’islamosinistra”. Sfida Macron e ha convinto Jean-Marie Le Pen a schierarsi con lui anziché con la figlia Marine. Un paio di anni fa aveva scritto sul Figaro: “Noi tartufi puritani, passati da «io sono Charlie» alle leggi contro le fake news, dall’irriverenza alla riverenza. Il tempo ha rivelato la sua natura profonda. Puritana. I nuovi sacerdoti non officiano nelle chiese: predicano sui televisori o sui social. Sono giornalisti, associazioni, attori, cantanti, conduttori televisivi. E la loro inquisizione è molto più implacabile di quella dei loro predecessori”. Negli anni molti ne hanno invocato il boicottaggio e la radio Rtl lo ha cacciato. Ma, come è odiato, è anche amato, anche se forse non abbastanza per poter asprirare realisticamente all’Eliseo e forse, dopo un recente calo nei sondaggi frutto anche di qualche “incidente di percorso”, come il fucile puntato scherzosamente (?) contro i giornalisti e il dito medio mostrato a una contestatrice, e dal punto di vista tecnico-politico viene criticato per la presunta mancanza di una squadra all’altezza, capitanata dalla 28enne Sarah Knafo, che secondo Closer sarebbe incinta proprio di Zemmour.
Secondo uno degli ultimi sondaggi, Zemmour è al 14%, Le Pen al 19%, Macron al 25%. Ma ci sono quattro mesi di battaglia in vista dei quali Zemmour promette ai compatrioti di recuperare un Paese “che sta scomparendo”, “che è come se vi avesse lasciato”. L’obiettivo è “che i nostri figli non siano più sottomessi, che si possa preservare il nostro modo di vivere, le nostre tradizioni, la nostra lingua”, in modo tale che “i francesi si sentano di nuovo a casa e gli ultimi arrivati si assimilino alla loro cultura”. Per Zemmour l’immigrazione “non è la causa di tutti i nostri problemi, ma li aggrava tutti”. E ancora: “Non ci lasceremo dominare, conquistare, rimpiazzare”. Quanto alle critiche, “vi diranno che siete razzisti e animati da passioni tristi, ma è la passione più bella che vi anima, quella per la Francia”. Infine l’appello: “Siamo un grande popolo, abbiamo sempre trionfato. Unitevi a me”.
Per Giuliano Ferrara, con la candidatura di Zemmour che si materializza “divampa qualcosa di più e di diverso da una semplice battaglia politica o elettorale, esplode di nuovo una furiosa guerra culturale”. […] In apparenza Zemmour è come Trump, un nazionalista, Make France Great Again. Ma Trump è un brigante e un ignorante istintivo, un demagogo, un mercante di sé stesso e delle sue bellurie, mentre Zemmour è un giornalista, un intellettuale e un brillante oratore e scrittore politico, oltre che un mezzo fissato patologico, la specie di cui fu fatta la classe dirigente della Rivoluzione francese […]. È un ebreo algerino assimilato, di sé rivendica l’essere un berbero, radici popolari, bocciature all’ingresso della scuola delle élite, una formazione personale strappata con unghie e denti, una lunga pratica di giornalista e comunicatore sulla stampa alla radio in tv, un successo di pubblico enorme, madornale, con apparizioni e libri. Ha un viso aguzzo, parla un francese sontuoso e acuminato come il suo profilo, fa innamorare spesso di sé la gente, anche sbagliata e con venature profondamente razziste e in qualche caso antisemite, e provoca la detestazione furiosa di altrettanta gente, anche giusta, anche semplicemente tollerante, che si aggiunge ai conformisti dello sciame politicamente corretto, i più brutali e censorii”. E ancora: “Zemmour divide come nessuno. Naturalmente è antifemminista, critica la femminilizzazione della società. È tendenzialmente bonapartista, vive nel mito dei grandes hommes. Sa organizzare le sue idee, ma spesso si riduce in schiavitù della loro caricatura nevrotica. Aderisce alla teoria del grande rimpiazzo etnico e dell’invasione musulmana in Europa e in Francia […]. Vuole il rimpatrio […]. Detesta l’universalismo, che è una radice decisiva dell’ideologia francese, e il cosmopolitismo […] Sui temi societari, per esempio l’aborto, […] sostiene che la tutela di una maternità consapevole è stata trasformata nella banalizzazione del diritto all’aborto, come fosse una normale operazione di appendicite. Sospetto che sull’eutanasia la pensi come lo scrittore, un altro fissato di talento, Michel Houellebecq, che la scongiura e danna come emblema della morte dell’occidente. Gli elementi della guerra culturale ci sono tutti”.