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Ottimo il Leone D'oro, ma il Benigni geniale è quello che non c'è più
(e che vorremmo ancora anche
solo per 10 minuti)

  • di Ray Banhoff Ray Banhoff

16 aprile 2021

Ottimo il Leone D'oro, ma il Benigni geniale è quello che non c'è più (e che vorremmo ancora anche solo per 10 minuti)
Una delle onorificenze più alte per la carriera di un attore è solo l'ennesimo trofeo toccato a Benigni ormai collezionista di lauree ad honorem e consensi. Ma dov'è finito il provocatore toscanaccio? Sparito da decenni.

di Ray Banhoff Ray Banhoff

È giusto dare un Leone d’Oro alla carriera di Benigni così come è lecito affermare che arriva quando ormai di Benigni non c’è più traccia, ora che il suo nome è ridotto a un brand innocuo, la sua immagine quella di un intellettuale ritirato a vita fuori dalla tv in cui si dedica ai set o alla Commedia di Dante. 
Non leggete queste parole con tono polemico, casomai il mio è rammarico.
Da toscano ho vissuto e sono cresciuto sotto l’ombra di questo gigante ed è stata una formazione che mi ha infuso curiosità ed energia, libertà di pensiero, autonomia, voglia di dissacrare. Questo mi ha insegnato Benigni e di questo ancora oggi ci sarebbe bisogno, ma lui da tempo ha scelto la filologia, Pinocchio, le interpretazioni drammatiche. 
Ne ha tutto il diritto, poiché non si può passare una vita sulle barricate, ma quello che voglio dire è che sebbene l’Oscar lo abbia sdoganato al mondo intero con La Vita è bella, lui il Leone alla carriera lo riceve per altri motivi. La vita è bella era un bluff che poteva piacere giusto agli americani, a uno Scorsese nostalgico, quell’anno presidente della giuria, a chi cerca il cinema dei sermoni, il compitino fatto bene. Da lì in poi Benigni è andato un po’ col gas al minimo, per finire a leggere (male, va detto), la Divina Commedia. E poi per piantarsi per anni sempre e solo su quella. Che palle.

Mentre invece il Benigni vero, il monumento, è quello che cerca Pippo Baudo sì, ma per afferrargliele le palle. Quello che sale sul palco dei Telegatti nell’87 (quando il Telegatto era più importante dell’Oscar) con Mike Bongiorno scazzato che continua a ripetere che si dissocia dalle sue sparate, mentre lui dice che Mediaset fa schifo, poi chiede di Berlusconi tra la folla, urla: «Silvio, diventiamo ghei e andiamo in Puglia! Sirvio, perché non mi fai mai lavorà maledetto?» poi lo intercetta e lo strattona per baciarlo in bocca, divincolandosi come una piovra sul collo di quello che di lì a poco sarebbe diventato l’uomo più potente d’Italia e contro cui in futuro avrebbe espresso parole durissime e sfottentissime («è un maiale», «è uno schifo»). Fu per la boccaccia di Benigni che il Cavaliere invocò l’editto bulgaro, l’epurazione di Biagi dalla RAI dopo un’intervista senza freni al comico toscano.

Immaginatevi oggi nell’era della cancel culture e di Diet Prada e delle sue battaglie contro Striscia la Notizia, un comico che stende a terra una conduttrice cercando incessantemente di scoprirle la gonna per vedere “la patonza”. Benigni afferrò Raffaella Carrà sul palco di Fantastico nel 1991 e sibilò a microfono aperto: «Bella chiappa!» per poi lanciarsi in un monologo infinito su tutti i nomignoli che si danno alla figa. Sarebbe scandaloso oggi, pensate come era trent’anni fa.
Ecco da dove viene il rammarico e forse a pensarci bene è pure ingiusto da parte mia esternarlo ma è che siamo cresciuti in un mondo in cui ci dicevano che la diversità d’opinione era un valore e ora che rivendichiamo queste origini siamo sempre più uniformati per paura delle ritorsioni che un pensiero può avere: shitstorm, crollo della “reputation”, ghettizzazione. Il risultato? Stesse opinioni, stessi vestiti, stesse battaglie ideologiche.

Benigni era brutto, vestito male, prendeva in braccio Berlinguer, si faceva scomunicare dal vaticano per aver chiamato il Papa “”Wojtilaccio”. Benigni cantava L’inno del corpo sciolto, un motivetto dedicato alla gioia che “può provar solo chi caca di molto”, era il Benigni di "Berlinguer ti voglio bene", il suo esordio censurato nei cinema che oggi sarebbe impossibile riprodurre. Immaginatevi un film in cui gli amici del protagonista pronunciano frasi come «la donna che gli è morto il marito gli andrebbe bene anche il’ cazzo di ‘i figliolo, ma un la pole. Il tu babbo la metteva a peora, cazzoritto e godimaiala, te non puoi». Che ve lo dico a fare? E badate bene, Benigni non si permetteva queste follie in un paese facile, anzi si prendeva il lusso di sfottere il potere quello vero: la DC, il PSI, Mediaset dei tempi d’oro. 

Era apparso sulla scena come una sorta di scemo del villaggio e d’improvviso era diventato l’unico in grado di poter seminare il panico, l’unico così irriverente, così folle, così nonsense, così liberamente geniale. L’unico in grado di girare Daunbailò con Tom Waits e Jim Jarmusch, l’unico in grado di duettare con Troisi e improvvisare quasi per intero un capolavoro come "Non ci resta che piangere", l’unico in grado di far ridere anche tutto il David Letterman Show, l’unico nell’82 a presentarsi da Gianni Minà in diretta e dire «Domenica In è un programma da sottosviluppati mentali ma pure questo non scherza».
Sinceramente, darei indietro tutti gli Oscar, le lauree ad honorem e il Leone D'Oro, per dieci minuti di quel Benigni lì. Ma i premi sono suoi, mica posso barattare io per lui. Però: vogliamo mettere il Benigni del 2021 con quello del 1991? Dai.

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