A volte nel mondo dell’informazione (o presunta tale) succedono cose un po’ bizzarre, difficilmente spiegabili, o forse spiegabili con aspetti che con la deontologia professionale hanno poco o nulla a che fare. È il caso per esempio della notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati del generale Enzo Vecciarelli, capo di stato maggiore della difesa, nell’ambito di un'inchiesta della Procura di Roma (denominata “operazione Minerva”) su presunte tangenti e corruzione legate ad alcune forniture agli apparati militari italiani. A fare il nome di Vecciarelli sarebbe stata una imprenditrice (arrestata) che avrebbe raccontato ai magistrati di un giro di “mazzette”, anzi, di un “sistema in cui se non ti adeguavi non lavoravi”. L’ammontare delle tangenti si aggirerebbe attorno ai 18,5 milioni di euro. Una notizia data dalla Verità, che da tre giorni se ne occupa. Una notizia apparentemente o potenzialmente di grande rilievo (peraltro confermata dall’interessato, che ha fornito la propria versione) che però è stata in buona parte ignorata da telegiornali e giornaloni (come peraltro altri scoop di varia entità pubblicati dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro). Come si spiega? Solo con la volontà di non dare visibilità a una testata tendenzialmente malvista (o temuta) dalla concorrenza (deontologicamente non sarebbe una mossa lodevole, ma…), oppure c’è dell’altro?
“Ma se in America il capo di Stato maggiore dell’esercito risultasse indagato – si chiede Daniele Capezzone sulla Verità – la cosa potrebbe essere taciuta o nascosta da Wall Street Journal, Washington Post e New York Times? Sarebbe impensabile. O se a Londra venisse fuori la notizia di un’inchiesta a carico del Chief of the general staff, cioè del capo di Stato maggiore del British Army, in quel caso Times, Telegraph e Guardian (anche qui citiamo testate di orientamento politico e culturale tra loro opposto) potrebbero censurare e occultare tutto? Sarebbe incredibile, anzi unbelievable. In qualunque Paese dell’Occidente avanzato, davanti a una notizia di questo tipo, i media scritti e audiovisivi non avrebbero un solo istante di esitazione a pubblicare tutto con massima evidenza, ad aprire la discussione, a offrire all’opinione pubblica il maggior numero possibile di elementi di conoscenza. Di più: partirebbe una gara tra i giornalisti investigativi di punta delle diverse testate per aggiungere dettagli, per superarsi reciprocamente nel dare seguito all’inchiesta, per costringere i concorrenti a «bucare» nuovi e scottanti particolari. Come si dice in questi casi: ci sarebbe una corsa per «coprire» la storia, nel senso di non lasciarla giornalisticamente scoperta. E qui da noi invece? Pure nel nostro caso si può parlare di «copertura», ma nel senso - diametralmente opposto - di un enorme lenzuolo, di un gigantesco velo (non sapremmo dire quanto «pietoso») steso per impedire che il fatto sia materialmente visto da lettori e telespettatori”.
La vicenda è stata riportata in uno spazio molto contenuto sul Messaggero e su uno ancora più ristretto sul Corriere della Sera. Oggi ne parla anche Il Fatto quotidiano, ma spostando il focus sul generale Figliuolo (bersaglio ricorrente del giornale di Marco Travaglio), contestualmente indagato come atto dovuto.
“Troppe volte – prosegue Capezzone – abbiamo sentito ripetere la battuta secondo cui i media dovrebbero essere cani da guardia a favore del cittadino rispetto al potere costituito e non cani da compagnia rispetto ai potenti in carica. Giudichi ciascuno cosa stia succedendo in queste ore: con simpatia per ogni tipo di quadrupede, nel nostro caso il rischio è di non vedere nemmeno l’ombra di un pastore tedesco, ma solo una lunga fila di chihuahua o di cani da grembo”.
Del caso Capezzone ha parlato anche nella sua rassegna stampa mattutina, La Verità alle sette. Di seguito ecco un estratto del video.