In molti, dopo aver visto la videoinchiesta di Fanpage sulla “Lobby nera”, si sono chiesti come i giornalisti abbiano fatto a infiltrarsi, a non farsi scoprire e a documentare alcuni degli episodi che stanno facendo discutere e che ruotano principalmente attorno alla figura di Roberto Jonghi Lavarini, il “Barone nero” peraltro già protagonista di interviste epiche alla Zanzara. A molte di queste domande rispondono direttamente loro, Salvatore Garzillo (colui che impersonava il finto consulente finanziario che prometteva denaro in nero per la campagna elettorale), Sacha Biazzo e Luigi Scarano.
“La nostra copertura – le parole dell’insider Garzillo in una diretta su YouTube – è saltata solo quando è andata in onda l’inchiesta”. Si parla anche di minacce ricevute via messaggio dal giornalista: “Non mi sento in pericolo. Certo non è che faccia piacere, però è una cosa che abbiamo messo in conto dall’inizio e non può essere il discrimine tra il realizzare un lavoro del genere e non farlo. Se ti ci butti dentro, ti ci butti dentro del tutto. […] Peraltro io non sono l’unica persona esposta, perché dicono di aver preso anche il numero di targa di un collaboratore che mi aveva accompagnato”.
L’inchiesta è durata tre anni, con tempi dilatati dalla pandemia: “C’è stato uno storytelling un po’ fuorviante sul Barone nero. L’hanno dipinto un po’ come una macchietta, un personaggio innocuo, una persona che non conosceva nessuno. Questa è una tecnica molto furba, molto intelligente, cioè screditare uno dei personaggi chiave per far crollare un po’ tutta l’impalcatura. In realtà è una persona molto conosciuta e molto stimata in certi ambienti e che ha anche un certo peso. E dico questo perché questo è il punto chiave rispetto alla nostra copertura. Lui è stato veramente il Virgilio che mi ha portato dentro questo mondo. È iniziato tutto con l’empatia. Quando mi sono presentato con la mia identità di copertura lui mi ha trovato simpatico. Può sembrare una banalità, una cosa molto futile, però è quello. E in quanto rappresentante di una società lui ha pensato che io potessi essere utile per fare del business, e, poiché molto più giovane di lui, potrebbe aver pensato che io fossi un po’ plagiabile e che quindi questa cosa potesse fargli gioco. In più in qualche modo io ero un po’ il suo omologo in questi «mondi di mezzo». È stato lui poi ad accreditarmi con gli altri e ha speso tante parole per me con gli altri. Quindi questo ha fatto abbassare le difese degli altri soggetti che siamo andati a incontrare. Questo è stato uno dei motivi per cui ha tenuto la copertura e le persone si sono fidate di me”.
Ma la copertura ha mai rischiato di saltare? “La copertura ha rischiato di saltare praticamente ogni minuto, perché io sono almeno dieci anni che faccio il cronista a Milano, conosco tanta gente, in questi tre anni praticamente non mi sono mai fermato, ho continuato a fare il mio lavoro di cronista pubblicamente, per cui poteva saltare in qualunque momento, girando l’angolo e incontrando un collega o un’altra persona che mi conosceva con la mia vera identità di giornalista. Quindi la risposta è sì. È durata tre anni? Abbiamo rischiato per tre anni e un minuto”.
Non veniva da ridere ad assistere a certe scene “folkloristiche”? “Si, ma quando uno si cala in un personaggio… in mezzo ai lupi ti vesti da lupo. Se io mi trovo in una tavolata di gente che fa il saluto fascista e sorride al fatto che qualcuno possa avere il tatuaggio della svastica dietro la schiena, se sono in quell’ambiente, io devo necessariamente essere quasi come loro. Non ci sarà mai un secondo in cui io ho fatto il saluto fascista o ho utilizzato quella terminologia, però questo non significa che tu non debba partecipare anche con la prossemica del corpo”.
A livello personale ci sono state difficoltà a coniugare le due vite? “Molte. Sono riuscito a gestirle dal punto di vista emotivo, non è che sia impazzito, però i miei due colleghi e il direttore erano le uniche persone che sapevano. Neppure la mia famiglia… nessuno sapeva cosa io stessi facendo, ma neanche vagamente. E io sono un giornalista freelance quindi nel frattempo ho lavorato anche per altre testate (tra cui MOW, ndr). La difficoltà è stata quella di barcamenarsi tra le varie vite senza svelare nulla e mantenendo comunque la normalità professionale. L’unica cosa è che negli ultimi due anni non ho partecipato come cronista alle manifestazioni di destra, perché sarebbe stato veramente troppo rischioso. Quella è l’unica cosa che mi sono rifiutato di fare, perché sarebbe diventata una roulette russa stupida. Per il resto, per quanto possa sembrare strano, la mia vita è stata normale”.
A volte il Barone sembrava guardare dritto nella telecamera nascosta. Ma com’è possibile che una persona non si accorga che un’altra ha una telecamera nascosta addosso? “Il team Backstair di Fanpage – spiega Biazzo – fa giornalismo investigativo sotto copertura ormai da parecchi anni e abbiamo sviluppato una certa expertise in questo tipo di cose. E posso dire che non è mai successo (e abbiamo fatto incontri con telecamere nascoste con boss della Camorra, grandissimi imprenditori e importanti politici), non è mai successo in alcuna occasione che qualcuno si accorgesse della telecamera nascosta. Perché il lavoro che si fa, di ingegneria sociale, è precedente all’incontro. La fiducia che si crea con l’interlocutore deve essere un lavoro che si fa a priori. È ovvio che se tu bussi alla porta senza aver fatto nulla prima loro saranno ipersospettosi e magari un boss della Camorra una perquisizione corporale te la fa. Nel caso di «Lobby nera» un fattore fondamentale nel rapporto che si è instaurato con il gruppo è dovuto proprio al tempo: durante questa inchiesta a un certo punto è scoppiata la pandemia, che ha limitato tantissimo gli incontri e ha dilatato tantissimo i tempi. Per cui quando si è ritornato a fare incontri a un ritmo più serrato, le altre persone avevano un ricordo di anni precedenti dell’infiltrato, il che ha portato loro ad abbassare completamente le difese, perché non avrebbero mai potuto immaginare che un giornalista potesse fare una cosa per così tanto tempo”. Quando alla tecnologia impiegata, “non sai mai se la spy ha registrato. Non abbiamo utilizzato tecnologie particolari. Sono delle scatolette che costano quattro soldi”.
Perché l’inchiesta è uscita proprio prima delle elezioni? “Dobbiamo sfatare questo mito. La mattina prima dell’uscita dell’inchiesta abbiamo fatto l’ultimo incontro, la consegna della valigetta. Non c’entrano niente le elezioni, c’entra il fatto che appena abbiamo finito il lavoro siamo usciti pubblicamente, tant’è che la seconda puntata è uscita dopo le elezioni, anche se si parlava di altre persone candidate. La nostra inchiesta non era su un parito o su un candidato. Il nostro gruppo era capire chi fossero i referenti politici di questo gruppo che abbiamo definito «Lobby nera». Poi sono stati loro a portarci dai politici e dai partiti. Poteva essere qualsiasi altro partito o qualsiasi altra elezione”.
“È chiaro – aggiunge Garzillo – che tutto si presta a una speculazione ideologica. Se noi lo avessimo pubblicato il giorno dopo le elezioni avrebbero detto che volevamo difendere Fratelli d’Italia. L’unica regola che abbiamo, e che dovrebbe avere ogni cronista, è il principio della notizia. Se c’è una notizia, va data”.
Che dire della scena topica della consegna nella gay street di Milano del trolley rosso (con dentro non soldi, come richiesto, ma libri sull’Olocausto e la Costituzione) con tanto di parola d’ordine? “Chiaramente – spiega Luigi Scarano – una provocazione. Il resto l’ha fatto Jonghi, regalandoci questa parola d’ordine che ci ha fatto molto divertire”. Ripetiamola insieme: “Rosso come il fuoco, rosso come il sangue”. Anche se in realtà nel messaggio che sarebbe stato mandato via Telegram dal Barone nero si legge “Rosso il colore del sangue e del fuoco”. Ma la signora che ha fatto il prelievo ci ha messo del suo e ha reso il tutto ancora più pittoresco.