Roberto D’Agostino compie 75 anni, poche settimane dopo il ventitreesimo compleanno della sua creatura Dagospia, il magazine on line che ha cambiato la storia del giornalismo italiano e a cui tutti dobbiamo qualcosa, a cominciare dallo stile di scrittura veloce, trasversale, pungente, caustico.
Oggi però festeggiamo l’autore, non la sua creatura, celebriamo il dottor Frankenstein dell’informazione in rete e non il mostro (anzi i mostri) inconsapevolmente prodotto. All’inizio è un nome e non ancora un volto che comincia a girare per radio e sulle riviste in qualità di critico musicale. È questo un dato non trascurabile, perché tanti della generazione precedente la mia hanno suonato da dj e hanno scritto di pop e rock, portandosi dietro la passione e la competenza per un linguaggio che, negli anni 70, ti permetteva di capire tante sfumature del mondo. Leggevo i suoi articoli su “Popster”, una rivista che sarà anche stata mainstream ma intanto ci scriveva Pier Vittorio Tondelli, e seguivo i suoi primi servizi tv su Mister Fantasy dell’indispensabile Carlo Massarini.
Il grande pubblico della tv ha conosciuto Dago tra gli ospiti fissi dell’allegra compagnia di Renzo Arbore. Un ragazzo altissimo e magro, vestito di abiti colorati - gli anni 80 ci liberarono dalla tirannia del grigio e del blu così come spazzarono via il minimalismo dal design dando spazio al kitsch più estremo e alla creatività senza limiti- che si autodefiniva tuttologo, ovvero uno che ha (o si costruisce) un’opinione su qualsiasi argomento, la espone con presunta competenza e altrettanto bluff e gli altri ci credono. Anche questa tendenza va interpretata sulla scia dell’estetica nel decennio più meraviglioso del secondo novecento: la specializzazione non è più un valore, molto meglio improvvisare, cambiare l’ordine delle cose e allora un critico d’arte parli pure di politica e un politico scriva un libro sulle discoteche, uno psichiatra può intrattenersi sulla vita di coppia e un filosofo indossare i panni meno impegnativi del divulgatore. Gli anni 80 mettono alla berlina gli intellettualismi che ci avevano ammorbati nel post Sessantotto. Nel salotto di Quelli della notte, Dago cita insistentemente L’insostenibile leggerezza dell’essere, il romanzo di Milan Kundera numero uno del catalogo Adelphi nel 1985. Roberto sceglie uno scrittore poco popolare e lo eleva a simbolo del postmoderno, in anticipo rispetto alla fine delle ideologie, così come postmoderne saranno le operazioni editoriali - più o meno incisive - che seguono agli anni del successo in tv: Come vivere bene e senza i comunisti (1986, definitiva spaccatura a sinistra, dopo la morte di Enrico Berlinguer, il nuovo è rappresentato dal PSI di Bettino Craxi e sappiamo quanto l’abbiamo pagata la mancata terza via), Il meglio di Novella 2000 (ovvero l’archetipo del rotocalco scandalistico), Sbucciando piselli scritto nel 1990 con Federico Zeri, in antitesi all’antipatia per Vittorio Sgarbi dopo gli storici ceffoni in tv.
Quando, trentenne, negli anni 90 vado a vivere a Roma spesso incontro Roberto D’Agostino alle inaugurazioni delle mostre, in giro per il centro, seduto al Caffè della Pace. Dagospia non è ancora nato e lui sta compiendo un’ulteriore mutazione genetica che invade di tatuaggi il suo corpo sempre più magro, decorato di anelli, monili, orecchini, il pizzetto si allunga, i capelli seppur radi raccolti in un codino. Il postmoderno ha lasciato spazio al dark, al new gothic, veste sempre di nero accompagnato talora da giacchette animalier, ci vuole un fisico bestiale e tanto, troppo, coraggio. Come un consumato performer, Roberto D’Agostino porta in giro sé stesso in qualità di opera d’arte dinamica e mutevole.
Non ricordo quando di preciso Roberto e io cominciammo a frequentarci con una certa irregolarità, anche se non vivo più a Roma. Entrare a casa sua, una delle più belle della Capitale, in cui dai terrazzi c’è una vista mozzafiato che non esiste in natura, significa entrare nell’universo di Dago, il collezionista di opere d’arte e il raccoglitore di paccottiglia kitsch mescolate le une alle altre senza gerarchia né ordine di importanza, in fondo un Damien Hirst vale una statua di Mao da mercatino cinese, una foto di La Chapelle un manifesto pubblicitario e un Helmut Newton un sex toy di modesto design: siamo noi a stabilirne l’importanza attraverso il nostro grado di affettività. Dago dice di rompersi le scatole ad andare alle feste - sostiene lo invitino poco per colpa di Dagospia, ma non ci credo - però quando le organizzano loro, lui e la moglie Anna, la contraddizione viene elevata a principio di natura poetica. Quando Brian Eno esordì a Roma da artista visivo, Dago diede in suo onore un gran party con gente da tutta Italia e il guru del minimalismo, felice e meravigliato, sembrava persino fuori posto tra tanto eccesso visivo e sonoro, culminato con le canzoni napoletane di Maria Nazionale, che è un po’ come proporre Gigi D’Alessio a Bob Dylan.
Dago mi ha invitato spesso nei suoi programmi, soprattutto la recente serie Dago in the Sky su Sky Arte. Si è sempre preoccupato di anticipare il presente, intuire i cambiamenti, sperimentare i linguaggi prima che diventino merce comune. Personalmente evito di incontrare e conoscere i miei miti con la certezza che ne rimarrei deluso. Ho scritto la biografia di Renato Zero senza scambiare mai due parole con lui, non mi interessa andare a cena con i calciatori della Juventus anche se (a stadio aperto) impazzisco per loro. Roberto, invece, l’ho inseguito pensando, e mi auguro che ciò non suoni presuntuoso da parte mia, di far parte bene o male della stessa tribù, ex ragazzi degli anni 80 mai usciti di là eppure protagonisti dell’ultima rivoluzione culturale del Paese. Senza nostalgia, si prende ciò che serve, lo si rielabora e si affronta un’altra sfida. Per oggi Dagospia la lasciamo in disparte e festeggiamo Roberto, cui auguro un mondo di bene.