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Sergio Marchionne:
il fumo, la passione per il lavoro
e l’ossessione del risultato finale

  • di Federico Vergari Federico Vergari

20 dicembre 2021

Sergio Marchionne: il fumo, la passione per il lavoro e l’ossessione del risultato finale
Da qualche giorno è disponibile sulla piattaforma Rai Play “Sergio Marchionne” il documentario che ricostruisce in poco meno di due ore la figura del manager che ha rilanciato il marchio Fiat nel mondo. Lo abbiamo visto e ci ha ricordato il più italiano degli insegnamenti possibili: se non sei certo di vincere, cerca almeno di essere sicuro di stupire

di Federico Vergari Federico Vergari

“Secondo il filosofo Nietzsche ciò che davvero solleva l’indignazione contro la sofferenza non è la sofferenza stessa, ma l’insensatezza della sofferenza. Perché una crisi che non sfocia in un cambiamento duraturo e fondamentale sarà una crisi senza senso”. Sono tante le frasi del manager estrapolate da discorsi e interviste che ci accompagnano nella visione del documentario del regista Francesco Micciché, ma questa frase è forse quella che più di tutte colpisce perché è tante cose insieme: è un manifesto di intenti verso la vita, un modo di porsi e anche un modo di intendere il lavoro e la professione. Del resto, quando Sergio Marchionne si siede sulla poltrona più delicata della Fiat nel 2005 ha davanti a sé ha una situazione critica che può trasformarsi in una sofferenza fine a sé sessa o in un cambiamento duratura. E la decisione sul come far andare le cose spetta sempre a noi e in questo caso a lui che del resto non ha mai nascosto di voler ascoltare sempre tutti per poi decidere da solo il da farsi perché questo – sosteneva – è quello che fa il vero leader. Ascolta e decidi in solitudine i due comandamenti su cui basare una carriera da top manager.

Il documentario è strutturato in un a formula classica e del resto - in questi casi - è la storia e non la narrazione fine a se stessa a decidere la fortuna del prodotto di intrattenimento. Sono tante le persone coinvolte che prendono la parola durante le riprese. Dai suoi più stretti collaboratori fino agli alti dirigenti Fiat, da giornalisti come Massimo Gramellini ai sindacalisti (Camusso e Landini) e altri imprenditori (Farinetti). Quello che esce fuori dal racconto è una fotografia completa di uno dei personaggi più influenti nell’industria italiana di inizio secolo… alla guida di una macchina (metaforicamente e non) che proprio nel passaggio di secolo ha rischiato di sparire. 

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Sergio Marchionne appena arrivato alla Fiat

Il fumo, la passione per il lavoro e l’ossessione per il risultato finale. Con il suo maglioncino nero (per non dover pensare ogni giorno a cosa indossare) diventato una seconda pelle o meglio una divisa vera e propria quando ancora doveva essere sdoganata l’immagine dell’uomo potente in versione casual Friday. Così vestito Marchionne ha girato il mondo, stretto mani, inaugurato scalate in borsa e acquisizioni. Nato in Abruzzo nel 1952 a 14 anni finisce in Canada per seguire i genitori in cerca di un migliore futuro. Tornerà in Italia per lavoro e dal nostro Paese non se ne andrà mai più legandosi per sempre a due simboli dell’Italia nel mondo. La Fiat e la Ferrari e sono davvero in tanti a sostenere che il suo più grande rammarico sia stato quello di non aver fatto la differenza nel ramo sportivo, riportando un titolo a Maranello. 

Marchionne ribadiva in continuazione che gli bastava una settimana di ferie l’anno e c’è chi giura che lavorasse anche in quei sette giorni e che un manager dovesse lavorare tra le 12 e le 14 ore al giorno. Ogni giorno. Weekend compresi. E andava fatto certamente per il lavoro, ma soprattutto per dare un esempio ai dipendenti. Marchionne del resto porta a Torino un’immagine diversa. Non quella del padrone che osserva gli altri lavorare, ma quella del manager che per primo lavora tanto e bada poco alle frivolezze della vita. Insomma: una mentalità da boom economico riadattata ai tempi e in salsa sabauda che però ha saputo dare i suoi frutti.

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Sergio Marchionne e John Elkann

Con i suoi più stretti collaboratori era solito giocare lunghe mani a poker rigorosamente senza soldi. L’assenza del portafoglio rendeva il gioco incredibilmente difficile e toglieva agli avversari una variabile fondamentale per l’interpretazione delle partite. Diceva che da quei momenti era in grado di capire come la sua squadra potesse affrontare le difficoltà e a chi perdeva consegnava un foglio con i punteggi della partita, il cosiddetto “foglietto della vergogna” che doveva essere conservato con disappunto fino alla prossima tavolata.

Difficile dal documentario comprendere le dinamiche sociopolitiche e imprenditoriali dell’uomo, certo è che se l’obiettivo era quello di accendere un faro su una figura di spicco del nostro Paese allora l’operazione è pienamente riuscita.  Marchionne ha lavorato una vita con il solo obiettivo di rompere gli schemi e far saltare il banco perché anche nella più accurata delle programmazioni (e lui era uno che programmava accuratamente) non è possibile avere certezza delle mosse della concorrenza e questa sua capacità di tirare fuori il jolly a sorpresa è forse il più italiano degli insegnamenti possibili: se non sei certo di vincere, cerca almeno di essere sicuro di stupire.

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