Il TAS di Losanna ha confermato la squalifica ad Andrea Iannone senza tenere conto del passaggio della sentenza che attesta la non volontarietà circa l’assunzione della sostanza dopante (contenuta in una bistecca consumata in un ristorante malese nel 2019). Quattro anni, senza sentire ragioni. Nonostante sia chiaro a tutti che è assurdo e ingiusto e nonostante sia chiaro a tutti che è dai tempi in cui siamo diventati minimamente civili che si fa distinzione tra colpa e dolo, tra volontarietà e non volontarietà. Non è la prima volta che succede nel mondo dello sport, ma è la più eclatante. Perché se in passato qualche dubbio poteva anche esserci, questa volta c’è una sentenza di primo grado che ammette esplicitamente la non volontarietà. E il precedente è pericoloso. Per tutti. Perché significa che da domani mattina ognuno dovrebbe entrare al bar o al ristorante con un chimico al seguito, per farsi analizzare ciò che si appresta ad ingerire. Detta così, lo so, è semplicistica, ma di approfondimenti sul caso Iannone se ne trovano a palate in rete e basta cercare. La questione è un’altra: la reazione dei colleghi di Iannone. Quale reazione? Al momento nessuna, appunto. Qualche solidarietà di circostanza, ma niente di più. Invece è il momento che il piloti della MotoGP dimostrino di essere categoria, di sapersi unire in difesa di un collega e anche dei loro stessi diritti. E’ il momento di una azione eclatante e qualcuno, magari a cominciare dai più esperti e dai connazionali di Andrea Iannone, farebbe bene a rendersene conto.
Ci va di mezzo la credibilità dell’intero ambiente e ci vanno di mezzo, soprattutto, quei valori e quei sentimenti di appartenenza che permettono alla MotoGP di avere ancora seguito e successo. Lo spettacolo non è più quello di una volta, i personaggi non sono più quelli di una volta, i protagonisti non hanno il peso umano dei protagonisti di una volta; eppure la MotoGP è ancora seguitissima, contrariamente a quanto accade per altre discipline del motorsport. L’esempio della Formula1, sempre più di nicchia e sempre più in cerca di fortuna altrove nel mondo dopo aver perso appeal proprio dove era radicata, è sotto gli occhi di tutti. E se la MotoGP tiene ancora la ragione è una sola: chi la segue è appassionato vero, si sente parte di un movimento, di un modo di vivere sincrono ai giri dei motori delle moto da corsa. La MotoGP è dei motociclisti (anche se chi la fa – motociclista - sembra non esserlo più) e i motociclisti, anche se è un luogo comune usato e abusato, si sentono davvero una grande famiglia. Basta pensare al gesto della V con le dita quando ci si incrocia, che è ancora un rito imprescindibile per molti, basta pensare ai sacrifici che si fanno per comprare moto e tenerle come si deve, alle litigate in casa per passare le domeniche in sella piuttosto che nei centri commerciali. Basta pensare, persino (e mai avrei pensato di scrivere una cosa del genere) a quelli che alla moto danno un nome, cambiano “le scarpette” e “fanno il bagnetto”. Tutte robe (esagerazioni imbarazzanti comprese) che fanno parte di una passione autentica fondata, prima di tutto, sul senso di umanità. Sull’essere parte di qualcosa.
I motociclisti, si dice sempre, si aiutano tra di loro, vivono una sorta di spirito cameratesco che li unisce tutti quanti. Magari oggi meno di una volta, ma tutto sommato è ancora così: le due ruote uniscono più di quanto riesca ad altre cose, altri oggetti, altre passioni. E’ vero, c’è più menefreghismo, meno senso di appartenenza, ma basta andare una domenica su un qualunque passo per vedere che quello spirito regge ancora, che lo sconosciuto con cui ti sei appena ingarellato augurandogli pure di scrociarsi, in verità, lo abbracceresti appena abbassato il cavalletto e girato la chiave. Cosa succederebbe se in cima a un passo, in una di quelle soste che sembrano raduni, arrivasse uno che per una mera tigna, per una mera dimostrazione di forza, si mettesse a bucare le gomme di una moto? Sicuramente finirebbe linciato da tutti, non solo dal proprietario della moto forata. Ecco, qualcuno, per una mera tigna, per una mera dimostrazione di forza, ha appena bucato per sempre le gomme di Andrea Iannone. Sarebbe il colmo, e sarebbe pure imbarazzante, oggi, se i motociclisti per eccellenza, i piloti della MotoGP, non si comportassero da motociclisti. Senza linciare nessuno, per carità, ma facendo qualcosa. Loro, i piloti della MotoGP, la storia di Andrea Iannone la conoscono. C’è una sentenza che dice chiaramente che la sostanza dopante è stata assunta senza volontarietà. Loro, i piloti della MotoGP, potevano stare tutti al posto di Andrea Iannone. E non è detto che non accada ancora. Dovrebbero immediatamente fare qualcosa, almeno mandare un segnale in attesa di organizzarsi per una azione più concreta. E se serve pure più eclatante. Perché al ristorante ci vanno tutti, come c’è andato Andrea Iannone quel maledetto giorno in Malesia. Non è uno simpatico? Possibile, ma non è questo il punto. Fa di tutto per rendersi odioso? Altrettanto possibile, ma non è questo il punto. Non è il pilota fenomenale che credevamo? Ci sta pure questo, ma continua a non essere il punto. Il punto è che quel ragazzo, pilota e quindi motociclista, è oggi vittima di una ingiustizia senza precedenti e rischia di essere solo il primo di una scia che potrebbe diventare ben più lunga.
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