Ci sono momenti in cui è giusto porsi domande, al di là di come andranno le cose, e poi prendere una posizione. Ci riferiamo al caso doping che ha investito Andrea Iannone – in attesa del suo epilogo finale, con la sentenza del TAS – e agli inquietanti scenari sulla giustizia sportiva che con esso si stanno aprendo. A maggior ragione, dopo che un'altra vicenda eclatante sta arrivando a conclusione, quella di Alex Schwazer.
Due casi che, nonostante le differenze di facciata, appaiono sovrapponibili per una ragione: quali garanzie ha l’atleta per dimostrare la propria innocenza?
Seguendo i due casi, sembra davvero pochissime.
Il controllo antidoping
Iannone era risultato positivo al drostanolone durante un controllo del 3 novembre 2019, a margine del Gran Premio della Malesia. La sanzione della FIM va dal 17 dicembre 2019 al 16 giugno 2021. La WADA chiede fino a 4 anni. Ma Iannone, tramite i suoi legali, si è rivolto al TAS.
In seguito, l’assunzione accidentale della sostanza dopante è stata accertata come accidentale. Iannone, infatti, non avrebbe fatto uso di queste sostanze con dolo, ma sarebbe stato vittima di una contaminazione alimentare. La causa sarebbe da ricondurre alla carne mangiata in un ristorante in Malesia che ha modificato i valori del drostanolone nel suo sangue. La “colpa” del pilota sarebbe, a questo punto, quella di non aver controllato sul web le sostanze proibite.
Il commento di Iannone: “Questo periodo è stato il più difficile della mia vita. Ho pensato davvero di tutto", ha ammesso Iannone. "Vedere riconosciuta la mia innocenza è una vittoria. Poteva andare molto peggio. Anche se abbiamo perso lo stesso, visto la condanna di 18 mesi… Sono il primo caso di sospensione per contaminazione alimentare. Nessuno di noi sa con certezza cosa mangia. C’è incongruenza fra il regolamento e la vita reale. L’obiettivo ora è tornare in moto il più velocemente possibile”.
Il comunicato dell’Aprilia: “Aprila Racing prende atto del provvedimento FIM che infligge diciotto mesi di squalifica al pilota Andrea Iannone. Da una prima analisi della sentenza si rileva con soddisfazione come sia stata riconosciuta la totale assenza di dolo e la accidentalità della assunzione di steroidi ammettendo, di fatto, la tesi della contaminazione alimentare, fatto mai accaduto prima. Questo scenario apre nuove possibilità di appello per Andrea Iannone ma rimane lo sconcerto per una pena del tutto incoerente con la ricostruzione contenuta nella sentenza stessa che riconosce nei fatti, pur non assolvendolo, l’innocenza di Andrea Iannone. Nel rispetto dei valori sportivi che da sempre ispirano la sua attività e che non prevedono alcuna tolleranza verso pratiche vietate dai regolamenti, Aprilia Racing ha sempre ribadito la piena fiducia nel suo pilota, lo fa con nuova forza dopo questa sentenza e lo sosterrà nel suo ricorso al TAS”.
Perché la Wada si comporta così?
Tiriamo le somme e poniamoci alcune domande.
Iannone ha assunto la sostanza “dopante” accidentalmente, non c’era quindi “dolo” nella sua condotta, che si è configurata, di fatto, come una “contaminazione alimentare”.
A fronte di questa ricostruzione, la Wada chiede comunque la squalifica di Iannone per 4 anni.
Quattro anni, forse scrivendolo lettera dopo lettera si può capire meglio la durezza della richiesta. Praticamente la giustizia sportiva ne azzererebbe la carriera.
E qui sorge la prima domanda: è normale che la giustizia sportiva sia così dura nei confronti di uno sportivo, nonostante la ricostruzione smentisca la volontarietà di essersi dopato?
Anche se sei innocente, difendersi è (quasi) impossibile
Ma andiamo avanti, cercando di capire in che maniera Iannone – così come Alex Schwazer – siano stati messi in condizione di difendersi dalle accuse. Prima di tutto chiarendo come avvengono i controlli anti-doping e cosa sia effettivamente nella disponibilità di chi viene trovato positivo, per dimostrare la propria innocenza.
Durante i controlli delle urine vengono prelevate due provette, che rimangono entrambe ad esclusiva disposizione della giustizia sportiva. Nessun “campione” viene dato all’atleta, per permettergli di realizzare delle contro-analisi da parte della difesa.
E qui sorge spontanea un’altra domanda: come ci si difende se non si ha nulla su cui i propri avvocati possono lavorare per dimostrare la propria l’innocenza?
È ciò che è avvenuto con Schwazer, così come con tutti gli atleti trovati positivi. Infatti, solo dopo tre anni il marciatore è riuscito ad avere accesso al database, ma solo perché si è rivolto alla giustizia ordinaria (con una denuncia penale contro ignoti). E così il giudice di Bolzano ha potuto incaricare il colonnello Giampietro Lago, comandante dei Ris di Parma, che ha condotto le indagini, di andare personalmente a Colonia per farsi consegnare le provette ed effettuare la contro-analisi che, a quanto pare, sta scagionando l’atleta altoatesino dalle accuse avendo stabilito che “erano state manipolate”.
Nel frattempo, Schwazer e il medico Sandro Donati sono stati costretti a difendersi senza avere accesso all’unica prova che potesse aiutarli nelle relazioni difensive. Senza contare quanto pesano 3 anni di inattività per un atleta – come i mesi trascorsi finora da Iannone senza potersi allenare in moto o i 4 anni chiesti dalla WADA –, oltre alla macchia sulla propria onorabilità.
E quindi ci chiediamo, ancora, come mai tante reticenze da parte della giustizia sportiva nel permettere a chi è accusato di potersi difendere come qualunque altro cittadino davanti alla legge? Per di più da una accusa così infamante, che rischia di rovinare gli sforzi di una vita e, in alcuni casi (basta ricordare Pantani) mettere persino a rischio la vita stessa.
Manomettere le provette è facilissimo
Il professor Donati, che ha difeso Schwazer, ha definito così la condizione di chi viene coinvolto in una vicenda di doping: “È come per un pugile lottare contro un avversario, ma avendo un braccio legato dietro la schiena”.
Che cosa può comportare questa situazione? Proviamo a fare delle ipotesi malevole, anche perché è risaputo: a pensare male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca.
In un mondo dello sport professionistico in cui girano tantissimi soldi e interessi, se per caso un avversario volesse sbarazzarsi di un concorrente scomodo o una azienda con la quale i rapporti si sono deteriorati pensasse di fare uno "sgambetto" all'atleta, e decidessero di farlo corrompendo un ispettore dell’anti-doping, quali garanzie avrebbe l’accusato per potersi difendere?
Pochissime, come abbiamo visto, non avendo a disposizione nessun campione delle proprie urine su cui effettuare contro-analisi, così come neppure la documentazione che ne attesta la positività, che spesso viene inviata con ritardi e parti mancanti. È quello che è accaduto a Schwazer e che è successo anche a Iannone.
Ma non appare ingenuo, e anche un po’ "dilettantistico" in un ambiente di professionisti, lasciare che sia così facile colpire uno sportivo?
Anche perché nel frattempo il famoso rapporto redatto da Richard McLaren, cioè il primo documento ufficiale di un organo internazionale in cui si parla di “doping di stato” per quanto riguardava la Russia, ha svelato quanto è semplice manomettere le provette utilizzate durante i controlli anti-doping.
Dopo una vicenda così sconcertante, come degli atleti dopati con la compiacenza delle istituzioni di uno Stato sovrano, alla giustizia sportiva non dovrebbe venire qualche dubbio?
E quindi, permettere almeno che una provetta rimanga nella disponibilità della difesa non sarebbe una garanzia anche per l’imputato? Fa specie che il giudice che si è occupato del caso Schwazer, abbia dichiarato: “È più tutelato un produttore di latte della Brianza di un atleta controllato all’antidoping”. Questo perché i carabinieri del Nas, una volta prelevato un campione di latte, lasciano una provetta anche nelle mani dell’allevatore, proprio per permettergli di difendersi da possibili errori umani e tecnici o da chi, per interesse economico, voglia sbarazzarsi di un potenziale avversario sul mercato.
Perché questa minima forma di garanzia non accade anche per gli atleti?
Il muro di gomma della giustizia sportiva
Insomma, avere a che fare con la giustizia sportiva sembra di scontrarsi contro un muro di gomma. Per di più, si è in balìa di una realtà che non risponde alla giustizia ordinaria e opera a livello internazionale con logiche e prassi del tutto arbitrarie. Chi saprebbe dire, infatti, a chi risponde la giustizia sportiva?
Eppure, proprio a fronte di tutte le mancanze sopra citate, sarebbe quanto mai auspicabile che un sistema basato soltanto sulla piena fiducia in un organismo così poco trasparente, decisamente carente verso le garanzie minime degli accusati e reticente nel mettere a disposizione degli atleti coinvolti nel doping gli strumenti di base per difendersi, risponda almeno a un organo terzo che possa evitare di arrivare a stritolare chi si trova impigliato fra i suoi ingranaggi.
Per come si presenta oggi, invece, la giustizia sportiva sembra avere troppe falle verso la manipolazione delle prove, una mancanza preoccupante di garanzie nei confronti dell’imputato e una autoreferenzialità che non è certo assicurazione di imparzialità.
Queste sono le ragioni, a prescindere da cosa deciderà il TAS (Tribunale Arbitrale dello Sport), che ci portano a sostenere Andrea Iannone. E speriamo che la sua storia - come quella di Schwazer -, possa aiutare a cambiare certe logiche nella giustizia sportiva, che a volte sembra tanto somigliare al famigerato tribunale dell’Inquisizione impegnato in una anacronistica caccia alle streghe.
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