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Arriva il documentario sullo scuolabus dirottato con 51 ragazzi sopra: una lezione di umanità

  • di Glauco Boniforti Glauco Boniforti

10 marzo 2021

Arriva il documentario sullo scuolabus dirottato con 51 ragazzi sopra: una lezione di umanità
Cinquantuno ragazzi sequestrati, altrettante famiglie disperate, due insegnanti e una bidella, alcuni carabinieri, una scuola e una piccola città in Lombardia. La vicenda dello scuolabus dirottato da Crema verso l’aeroporto di Linate nel 2019 è diventata un docufilm, andrà in onda sabato 13 marzo alle 21.25 sul canale Nove

di Glauco Boniforti Glauco Boniforti

Sono 127 le pagine di motivazione della sentenza a 24 anni di reclusione per Ousseynou Sy, l’ex autista che due anni fa, il 20 marzo 2019, ha dirottato lo scuolabus con cinquantuno ragazzini, i due insegnanti Alessandro Cadei e Giacomo Andrico e la collaboratrice scolastica Tiziana Magarini. La vicenda e il suo significato sociale non sono da dimenticare. A tenere viva la memoria Claudio Cararca con il suo docufilm che andrà in onda sabato dalle 21.25 sul Nove.

Quel mercoledì era un giorno come tanti altri per la classe di una scuola media di Crema, un giorno che però avrebbe abbandonato la quotidianità per dare spazio ad uno di quegli accadimenti che si pensa sempre che succedano a qualcun altro, mai a noi. La normalità spezzata non in qualcosa di insolito ma in qualcosa di tragico, qualcosa che difficilmente si presenta al di fuori del nostro immaginario o dei nostri schermi, che alla realtà fisica ne hanno sostituita una virtuale che non ci tocca fisicamente e che spesso ci fa dimenticare che la brutalità esiste anche fuori dai nostri smartphone.

L’autista era nato in Senegal ed era cittadino italiano da quindici anni. Quella mattina avrebbe dovuto percorrere il tragitto che avrebbe portato la classe dalla palestra alla scuola, ma non andò come previsto. Il gesto – come il dirottatore ammetterà ai procuratori – era preventivato e pensato interamente nei giorni precedenti; il giorno prima infatti Sy aveva acquistato una tanica da 10 litri di benzina, che era stata nascosta sullo scuolabus, e delle fascette di plastica per legare i polsi dei ragazzi e impedire a chiunque di fare l’eroe o di complicare in qualche modo il dirottamento. Motivo dell’attentato era vendicare le morti in mare dei migranti, tra le quali quelle di alcuni suoi famigliari.

Alle 11.20 di quel mercoledì mattina ecco l’inizio del drammatico viaggio: l’autista versa la benzina nel corridoio e sulle pareti dello scuolabus, pronuncia ad alta voce l’agghiacciante frase “Da qui non uscirà vivo nessuno” e ordina agli insegnanti di legare, con le fascette, i polsi dei giovani passeggeri. Lo scenario è tipico di un attacco terroristico, a eccezione delle vittime: dei ragazzini.

Se pensiamo all’episodio emblematico dell’11 settembre immaginiamo adulti che urlano e si terrorizzano perché, in quanto adulti, sanno esattamente cosa sta succedendo. Dei terroristi si sono presi l’aereo e molto presto, probabilmente, lo avrebbero fatto schiantare.

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Ousseynou Sy

La razionalità di pensiero è qualcosa che viene minacciato davanti al rischio di morte, ma che comunque vige in maniera completamente diversa in un gruppo di adulti rispetto ad una classe di ragazzini di 12 anni; probabilmente l’ex autista ha fatto una scelta sbagliata: la scelta delle vittime. I ragazzini, sì, vittime facili, vittime che hanno poco da controbattere sia per la loro ridotta capacità di intendere razionalmente un contesto sia per la loro ristretta prestanza nel rispondere fisicamente ad un uomo adulto e determinato nel suo intento in nome di un ideale per il quale è disposto ad uccidere. Quello che non aveva messo il conto Sy era il fatto che spesso le vittime più facili sono le vittime più imprevedibili.

I telefonini erano stati tutti ritirati ma un tredicenne, Rami, non consegna il telefono.

Lo scuolabus si sta dirigendo verso la campagna e le intenzioni di Sy sono quelle di dargli fuoco una volta usciti dalla zona urbana; il terrore è palpabile, le urla dei giovani, le lacrime fanno da sfondo in uno scenario che nessuno di noi si aspetterebbe mai di vivere. Arriva la telefonata ai carabinieri, dalla voce tremante del tredicenne si sentono le seguenti parole: «Aiuto, l’autista ci sta minacciando col il coltello e ci tiene in ostaggio sul pullman. C’è per terra della benzina, la prego mandi qualcuno, non è un film, c’è tanta gente. Il bus sta andando verso la campagna».

La chiamata d’aiuto è stata fatta partire dal fondo dello scuolabus. «Cercavo di salvare gli altri e basta», ha affermato il piccolo eroe poi alle autorità. Grazie a quella chiamata sono sopraggiunti i carabinieri, che hanno inseguito e speronato lo scuolabus, hanno sfondato i finestrini, permettendo ai ragazzi di uscire, e hanno evitato la tragedia. Quando l’ultimo ragazzo è uscito sono passati pochi secondi e lo scuolabus ha preso fuoco. Tutte le cinquantaquattro persone si sono salvate: il terrore si è concluso in un lieto fine.

Ed è stata proprio una di quelle che avrebbero dovuto essere “vittime facili” che ha salvato cinquantaquattro vite. La lezione che l’aspirante assassino ha imparato è la stessa che dobbiamo imparare noi: ai giovani c’è da insegnare, ma anche da imparare.

Imparare a rischiare per gli altri perché, sì, l’umanità è questa, è quella cosa che accade quando nessuno se lo aspetta, sia in male, come nel caso del dirottatore, sia in bene, come ha dimostrato il coraggio Rami. Forse è proprio il coraggio di prendere una decisione rischiosa e in nome degli altri, che abbiamo perso. Quel coraggio che inizia quando finisce la routine, quel coraggio che si forma quando si spezza la sicurezza che tutti staranno bene; insomma, quel coraggio che solo un bambino poteva avere in quel momento.

Oltre al senso di umanità che l’accaduto ci racconta, dobbiamo riconoscere che questo non può essere considerato un caso isolato. Negli ultimi decenni abbiamo sentito di molti casi di attacchi terroristici, e sebbene la paura diffusa sia superiore rispetto all’effettiva minaccia che incombe, non si può negare l’infondatezza delle nostre preoccupazioni. La domanda quindi è la seguente: Ousseynou Sy, il dirottatore, era malvagio? Perché se così fosse, allora dovremmo avere paura dei malvagi.

Oppure Sy era solo un sintomo di una società corrotta nel suo sottosuolo, che denuncia gli attacchi terroristici ma poi finanzia le guerre nel mondo per miliardi e miliardi di dollari?

È una domanda che non può avere certo una risposta secca e certo non tra le righe di un articolo, ma che ci deve far riflettere su come ci spaventiamo quando un uomo tenta di uccidere i nostri figli ma non ci poniamo mai il problema che, qualche chilometro sotto il nostro paese, i figli degli altri vengono uccisi quotidianamente da guerre e carestie.

Una giustificazione per l’accaduto? Ovviamente no, non siamo così sciocchi da pensare che i problemi siano solo altrove. La cosa di cui dobbiamo essere consapevoli è che spesso, all’interno del nostro tessuto sociale e politico, la vera ferocia non è l’eccezione, ma la regola.

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