“Camminerò, a un passo da te, e fermeremo il vento come detro gli uragani, supereroi come io e te, se avrai paura allora stringimi le mani”. Questi sono i versi di Supereroi di Mr. Rain, presentata l’anno scorso al Festival di Sanremo è divenuta una hit clamorosa, una delle prime tre canzoni ascoltate nel 2024. Perché, io ora sia qui a citarla come incipit di un capitolo di questo mio diario africano dedicato in realtà al camminare, lo avevo preannunciato e nonostante io sia a oltre diecimila chilometri da casa mi sembra doveroso essere di parola, è presto detto, e no, non ha nulla a che vedere col successo della canzone, non almeno per come qualcuno se lo potrebbe immaginare. Qui Mr. Rain non ci è arrivato, parlo della sua musica, i Masai, quando ti fermano ogni volta che ti vedono, come gli altri local, abbozzano qualche frase che riconduca genericamente all’Italia, da “come stai” a “mamma mia”, passando per “tutto bene”, “come ti chiami, io mi chiamo Jacopo”, molti Masai vengono battezzati in Tanzania, prima di arrivare a Zanzibar, con nomi italiani, nessuno canta canzoni italiane. Ce ne sarà giusto uno, ma lo incontreremo più avanti, anche perché, confesso, cazzeggiando cazzeggiando, pensate queste due parole cantate sulla melodia di Camminando camminando di Anna Oxa con Chayanne, del 1999, poi parlerò anche di Chayanne, promesso, cazzeggiando cazzeggiando mi sono ritrovato a saltare un giorno di scrittura, quindi ora dovrò faticare a dividere le esperienze per non rovinare la narrazione. Dicevo di Superori di Mr. Rain, con quel ritornellone superorecchiabile che ricorda Camminerò, la famosa canzone di chiesa, il motivo per cui si trova lì, come imcipit di questo capitolo del diario africano, è duplice. Da una parte mi interessava buttare lì proprio la faccenda del camminare, l’ho già detto, dall’altra serviva qualcosa di molto pop che introducesse con dolcezza un argomento delicato, il camminare. La scusa, perché è vero che a narrare sono io e decido io che ingredienti usare, è una delle stories con cui mia moglie sta raccontando questa vacanza, stories che ha mostrato foto di noi a passeggio per Matemwi, specie la spiaggia infinita e bianca di Matemwi, e che aveva Supereroi di Mr. Rain come colonna sonora. Da anni ci siamo divisi i compiti, senza neanche dircelo, dopo venticinque anni di matrimonio e trentasei insieme non è che serva proprio dirsi tutto, specie cose così poco fondamentali, ma è lei a raccontare sui social i nostri viaggi, taggando me, io mi limito a condividere, quando mi ricordo, postando giusto qualche foto qui e là, a volte col solo scopo di far sapere che sono altrove, come non bastasse appunto un diario, inutilmente. Inutilmente perché da inizio settimana, quando evidentemente hanno riaperto gli uffici a Milano, è un continuo “ciao, Michele, come stai? Ti vedo ancora in vacanza ma…”. Ecco, per questo, il fatto è che il 26 agosto, da nostro programma teutonicamente stilato, avremmo dovuto fare una gita in barca, sulla costa ovest. Avremmo cioè dovuto prendere l’auto, col nostro solito autista, andare a Stone Town, lì prendere una barca e andare a Prison Island, che si trova lì di fronte e dove si trovano le tartarughe giganti, poi prendere di nuovo la barca e andare in una striscia di sabbia in mezzo all’Oceano che si chiama Nakupenda, Dio che fatica trattenermi da raccontarne ora la storia, e stare lì il resto della giornata, cazzeggiando cazzeggiando in un posto pazzesco. Avremmo dovuto, ma è tempo brutto. Uno dirà, ok, ma voi siete sulla costa est. Ecco, a prescindere dal fatto che, a parte Munisi, che è il vice manager della struttura che ci ospita, il Jafferji Beach Retreat, nessuno immagino lo direbbe, lui invece lo ha fatto, noi abbiamo consultato qualcosa come dieci siti di meteo, locali e non, e tutti danno pioggia anche sulla costa ovest, quindi abbiamo rimandato al 31.
Avendo quindi di fronte una intera giornata in zona, nel mentre qui ha iniziato a piovere, parlo del 26 mattina, come se stessi scrivendo in tempo reale, facilitato dal fatto che nel mentre piove anche ora, siamo ai Tropici, abbiamo deciso di andare a visitare il villaggio fuori dal resort, quello nel quale abitano tutti quelli che ci fermano mentre stiamo in spiaggia e i bambini e h ragazzini giocano a calcio con Francesco. Una passeggiata ovviamente da fare con cautela, non perché ci siano rischi, figuriamoci, ma per evitare di offendere qualcuno, facendo foto e video. Quando dico villaggio, per intendersi, dico un insieme di case e capanne, con spazi pubblici, sentieri di terra battuta e qualche negozio, non rivolto ai turisti. Qualcosa di assolutamente confusionario, quasi incomprensibile a occhio estraneo, dove si incontrano bambini che girano da soli giocando, donne e uomini intenti, in genere, le prime a lavorare, una per dire sta tirando su l’acqua da una pompa che avrà sotto un pozzo, altre sistemano verdure, gli uomini a non fare un caz*o, in questo caso radunati a chiacchierare dentro una stanza senza pareti, altrove seduti in sella a moto parcheggiate lungo la strada, spesso all’ombra degli alberi. Qua e là, ovviamente, ci sono galli e galline, e mucche. Una di queste ultime, con un muggito che avrebbe potuto far pensare a un toro anche piuttosto grande, ha cominciato a seguirci, vagamente minacciosa, al punto che Marina, che non è un cuor di leone con gli animali, prima ha temuto volesse caricarci, poi, addirittura, che stesse andando da un gruppo di mucche al riposo all’inizio della spiaggia, in un piazzale sotto alte palme, come per organizzare un attacco di massa. Muoversi per un villaggio è strano, perché da una parte ti trovi di fronte una realtà del tutto estranea, distantissima dal nostro quotidiano, al punto che vorresti immortalarla tutta, in video e foto, d’altra parte, però, sei anche cosciente che sei un bianco privilegiato cui nessuno dirà nulla perché porta soldi nella zona, in quanto turista ospite di una struttura, ma al tempo stesso sei uno che sta andando a curiosare a casa loro. Che poi, uno dei punti della faccenda è proprio il concetto di casa, perché seppur qui non ci siano capanne di fango e legno, ma prevalentemente case di pietre e mattoni, siamo pur sempre in un contesto che da noi ci farebbe chiamare gli assistenti sociali o qualche organizzazione di volontariato, sicuramente nessuno chiamerebbe paese un posto del genere, più vicino a una baraccopoli. Anche per questo, arrivati al confine, dopo esserci chiesti cosa mai sarà questa roba lilla che si vede a un certo punto, un paio di edifici tinti, una enorme panchina con bandiere e scritte incomprensibili per noi, probabilmente qualcosa legato alla difesa della donna, abbiamo concluso, poveri ingenui, abbiamo deciso di rientrare al resort passando dalla spiaggia, anche per non sembrare davvero vouyer. E qui passiamo al tema del camminare, perché in spiaggia, ovviamente, siamo stati affiancati e accompagnati per qualche tratto, da local, Masai o meno, che volevano venderci qualcosa. Un approccio invasivo, perché ti attaccano bottone con carineria, sempre una battuta o una trovata curiosa, ma poi non ti mollano finché almeno non ti hanno detto cosa hanno da appoipparti, stamattina compreremo una grande conchiglia in una bancarella, consci che probabilmente non passerà ai controlli, e che ci appiopperanno pure una multa, per aver provato a esportare qualcosa di illegale. A parte quindi i bambini e ragazzini che passano le giornate a correre dietro un pallone, tra questi nostro figlio piccolo, è pieno di gente che si fa chilometri e chilometri, spesso non ottenendo altro che un “semmai domani” detto per gentilezza, in realtà sarebbe un “no”, spesso frainteso (quindi domani saranno qui a dirci, eccoci).
Gente che cammina come del resto è pieno di gente che cammina ovunque, perché andando a fare le gite ne vedi a centinaia, lungo le strade, dai bambini e bambine che vanno o tornano da scuola con le loro divise, a chi trasporta cose, in mano o sopra la testa, spesso in ciabatte. Anche mentre eravamo in Tanzania, perché in realtà qui ci tengono a tenere un po’ le distanze, sono un protettorato, hanno sì sopra il presidente della Tanzania, che per altro ora è una donna proprio di qui, ma hanno anche un proprio presidente solo di Zanzibar, sono due cose distinte. Qui ci sono tre culture che si fondono, quella africana, indubbiamente, quella indiana, il titolare della struttura che ci ospita è palesemente indiano di origine, e quella araba, essendo Zanzibar a lungo stata la capitale del sultanato dell’Oman, non a caso qui il 95% è mussulmano, contro il 50% della terra ferma. Dicevo, anche mentre eravamo in Tanzania abbiamo visto tantissima gente muoversi a piedi, anche lontanissimo dai villaggi, quindi si presume a metà di lunghi spostamenti. C’erano anche un sacco di pullman, sgangherati e strapieni ma comunque su ruote, qui ne abbiamo visti meno, ma probabilmente chi va a piedi non se lo può permettere un pullman. Discorso a parte quello degli studenti, perché da noi vedere bambini anche di sei anni da soli in luoghi isolati è cosa impensabile, qui invece li vedi ovunque, e nessuno si permette di infastidirli. Rischiano semmai di finire sotto uno di questi camion con targa cinese che corrono come pazzi. Noi, in città, in Italia, non siamo abituati a vedere gente che cammina. Gente che passeggia, si, come gente che fa commissioni, per non dire di chi fa jogging, ma non gente che cammina per spostarsi da un luogo a un altro, da un paese a un altro paese, questo in fondo sono i villaggi. Nel,1999, venticinque anni fa, quando mi sono spostato, questo nostro viaggio di famiglia e per festeggiare il venticinquesimo di nozze, siamo andati, io e Marina, mia moglie, in viaggio di nozze in Messico, Guatemala e poi a Cuba. Lì ci siamo trovati a prendere alcuni di questi pullman usati dai local, chiamiamoli pullman con generosità, di quelli che poi vediamo riprodotti nei negozi di Equo e Solidale, con sopra le borse e gli animali, tutti colorati e pieni zeppi di gente. Una volta, proprio in Guatemala, mi sono trovato a fare un viaggio di tre ore con un vecchio seduto sulle gambe, perché facevano tutti così. Se oggi che ho cinquantacinque anni mi sedessi io sulle gambe di qualcuno probabilmente gli spezzerei i femori. Durante questi viaggi si sentiva sempre alla radio una canzone, Dejaria todo, per noi due la canzone del viaggio di nozze insieme a No me ames di Jennifer Lopez e Marc Anthony, che poi sarebbe Non Amarmi di Aleandro Baldi e Francesca Alotta (sappiate che da qualche parte esiste una videocassetta nella quale la cantiamo, nella versione italiana, anche io e Marina, durante la cena del nostro banchetto di nozze, l’aria di Zanzibar, nel frattempo è tornato a splendere il sole e complice l’alta marea ho anche fatto il bagno al mare, da qualche parte in mezzo a ciò che avete appena letto, l’aria di Zanzibar mi fa aprire gli armadi con gli scheletri). Tornati in Italia, giovani e felici, abbiamo scoperto che Chayanne era diventato una star, per aver interpretato Camminando camminando con una quantomai conturbante Anna Oxa, era l’epoca in cui cantava facendo intravedere le strisce del perizoma fuori dai pantaloni larghi. Così si chiude un cerchio, perché aneddoti riconducibili a viaggi su Mr. Rain, ahi noi, non ne ho, e in fondo, seppur decisamente talentuoso e anche piuttosto simpatico, rimanendo in tema di cammino, troppa strada deve ancora fare prima di diventare una star come la Anna Oxa o il Chayanne di allora. Nel pomeriggio ci siamo fatti di nuovo tutta la spiaggia a piedi, conoscendo altri Masai, venendo stalkerizzati ancora dai soliti Beach boys, niente bambine oggi, e questo si che sarebbe stato un ottimo gancio con Supereroe di Mr. Rain, eseguito sul palco dell’Ariston con un coro di voci bianche, roba molto di impatto, ma ancora una volta il fratello di Ciccio Bello a proporci i suoi servigi. Dio che farei sapere che faccia ha il Ciccio Bello di Zanzibar.