Prendere parte a un Safari è un’esperienza incedibile, ma è anche incredibilmente faticosa. Lo è da un punto di vista fisico, lo è da un punto di vista emotivo e lo è da un punto di vista professionale. Andiamo in ordine. Il lodge che ci ospita, a pochi minuti dall’ingresso del parco e del fiume in cui ieri abbiamo fatto il giro in barca, è costruito come un villaggio, ma è molto più bello di qualsiasi villaggio ci sia capitato di vedere fin qui. C’è una grande costruzione, aperta, con un tetto alto a capanna e dei tavoli e due banconi sotto, e da lì partono i sentieri che conducono alle singole casette, semirette fatte a forma di vacanze, che formano il corpo del lodge. A terra c’è sabbia, inframezzata da piane basse. Appena arrivati ci hanno accolto con un succo tropicale, molti sorrisi e grande gentilezza. Abbiamo fatto un pranzo a base di spaghetti alle zucchine e pollo prima di andare a fare il giro in barca, è una cena a base di manzo e riso giallo. Sfiniti siamo andati a dormire presto, la casa presenta tre letti matrimoniali disposti su due camere, camere che però non presentano porte, né finestre. A dividere le stanze e anche il bagno ci sono delle tende, al posto delle finestre zanzariere, con zanzariere a baldacchino a sormontare i letti. Tutto molto bello, se non fosse che a una certa ora la temperatura crolla e tocca tirare su una copertina che neanche avevamo notato, e che la sveglia ha suonato alle sei, ricordate la faccenda della fatica? Questo perché il Safari prevedeva una partenza alle sette, con colazione, abbondante, alle sei e trenta. Del resto il sole sorge a quest’ora e tramonta, come detto, verso le sei di pomeriggio. Partiti, belli galvanizzati, a arrivare al Selous National Park ci abbiamo impiegato davvero cinque minuti, e dopo una breve attesa per controllare i documenti portati da Rama, abbiamo iniziato. Prima di cominciare, però, e credo sia un segno del destino, alle nostre spalle hanno attraversato la strada quattro tassi del miele, visti da Lucia che ha inaugurato questa cosa di avvisare gli altri a ogni avvistamento. Ora, il titolo di questo racconto africano, nella mia testa, è stato sin da subito, Considera il rinoceronte. Un omaggio doppio a due scrittori che adoro e che mi hanno indubbiamente firmato, il primo, già citato, Douglas Adams, che vestito da rinoceronte ha attraversato queste terre trenta anni fa, il secondo David Foster Wallace, che col suo modo di fare reportage considerò il mio padre putativo, e che ha scritto quel Considera l’aragosta che ritengo a mio modo il massimo in fatto di ambientalismo e animalismo, da un punto di vista intellettuale. Quindi il rinoceronte è divenuto suo malgrado il simbolo di questo viaggio, ma io sono a tutti gli effetti un tasso del miele. Da che anni fa ho scoperto questo animale non ho potuto che identificarmi in lui, in quel suo essere solitario, cattivissimo, incurante della grandezza dei suoi avversari, e anche per questo temuto e temibile. L’animale più cattivo del mondo, così ne parlano. Ne ho scritto, così si chiamava il mio blog, questo è uno dei tre hashtag che uso sempre, insieme a “attitudine” e “spandoamore”, in altra occasione spiegherò perché, è più in generale, sono pur sempre l’autore del libro, del podcast, insieme a mia figlia Lucia, del format e dello spettacolo teatrale Bestiario Pop, direi che identificarmi con un animale e un animale selvatico e cattivissimo è il minimo sindacale.
Vedere quindi come primo animale di un Safari, prima ancora di iniziare, e con in più la quasi totale certezza che non ne avrei visto neanche uno, una famiglia di tassi del miele è più di quanto avrei potuto sperare. Forse anche troppo. Questo anche perché, spoiler, di riconoscerti, invece, non ne vedrò neanche uno. Era successo anche un paio di estate fa in Francia, quando nel parco nazionale di Boutissaint, dopo essere stati avvisati all’ingresso che no, non avremmo visto il cervo bianco testimonial del parco stesso, beh, a un certo punto lo abbiamo visto guidare, letteralmente, un branco di cervi dentro un lago, sancendo di fatto non solo un mezzo miracolo, ma anche stabilendo che quello era per tutti noi, io, mia moglie Marina, tre dei nostri quattro figli, Tommaso e i gemelli Francesco e Chiara, uno dei giorni più belli delle nostre rispettive vite. Tornando però al racconto e alla fatica, fare un Safari significa stare in auto per circa undici ore, come se da Milano arrivassi in Normandia, o in Sicilia, con giusto un paio di soste, una delle quali per mangiare e pisciare, una guida lenta, attenta, con continue soste per vedere e fotografare e filmare animali, poi ci arrivo, e continue gimcane su buche e dossi, come fossimo al Camel Trophy. Quindi non solo undici ore di auto, ma di auto tutta scossoni e urti, roba da schiantarti le reni. Dico questo non perché la cosa mi abbia stancato, lo ha fatto indubbiamente ma trovo la cosa indifferente, ma per passare al secondo punto, e quindi al terzo, fare un Safari è emotivamente faticosissimo. Perché è un’esperienza, parlo per me, per la mia famiglia, ma immagino per molti, se non per tutti, che abbiamo sognato da sempre, auspicato da sempre, e ora è qui, vissuta e pulsante, e perché un contatto così frontale con la natura, cervo bianco a parte, non lo avevamo mai vissuto. Una vera cascata di emozioni, tra lo stupore, la meraviglia quasi fanciullesca, e la fascinazione, passando per tutta una serie di domande che tutti noi, ognuno con la propria testa e quindi le proprie parole, si è posto, riguardo la vita e il suo senso, il nostro stare al mondo, varie e eventuali. Perché quando passi mezza giornata, letteralmente, ad ammirare antilopi, che qui chiamano impala, come i Tame impala, ippopotami, giraffe, elefanti, bufali, gnu, scimmie di varia foggia, coccodrilli, uccelli di tutti i colori, leoni, si, anche leoni, cinghiali come quello che cantava Hakuna Matata nel Re Leone, e anche le iene, proprio verso sera, beh, è difficile se il nostro vivere in città, muoverci in auto, lavorare sul web sia in fondo la scelta migliore, questo senza tirare ancora in ballo il Mal d’Africa, una vera botta emotiva, E quindi arriviamo al terzo punto, quello in cui specifico come fare un Safari sia anche una immensa fatica professionale, e non certo per la durata del giro, per altro con un bis domattina, per le ossa rotte, il caldo preso, la spossatezza accumulata, ma per quel tentativo fallito miseramente di raccontare l’irracontabile. Fatica vana, verrebbe da dire, anche perché ora, ancora sudato e impolverato, e in attesa del mio turno per fare la doccia, sto qui a scrivere, ma fatica che come scrittore non posso esimermi dal fare, consapevole che mettere dentro frasi anche articolate come mie, spesso cariche di ironia, con un continuo star lì a citare di tutto, a nulla può di fronte alla natura in tutta la sua potenza e bellezza. Ne abbiamo parlato, oggi, in un momento in cui Rama stranamente non ci stava raccontando uno dei tanti interessantissimi aneddoti su fauna e flora che ci è passata sotto gli occhi, l’arte qui non può niente, e lo dico così, senza alcuna frustrazione a riguardo, Non può se non raccontare, magari lavorando di dettagli, ma la cronaca non è arte che mi interessa affrontare, anzi, non credo proprio sia arte. Lo stile, qualsiasi stile, non renderebbe neanche vagamente tanta grandezza, tanta violenza, anche, tanta vitalità, non potrebbe cercando di imitarla, né, tantomeno, lavorando sugli opposti. Mentre ero in aereo mi sono riletto i Quarantanove racconti di Hemingway, e non c’è certo bisogno che io stia qui a dire quanto Hemingway fosse valido e grandioso nel raccontare e nel tratteggiare con le parole la vita degli uomini. L’ho fatto perché volevo entrare nel mood di questo viaggio, e sapevo, perché lì avevo già letti da giovane e perché poi in questi mesi sono andato a ripassare la materia, che Le breve vita felice di Francis Macomber e Le nevi del Kilimangiaro raccontano della Tanzania. Ecco, pur avendo anche stavolta apprezzato la lingua e lo stile di Papa, mi sono ritrovato a dire che la Tanzania, per ora posso dire solo della terra ferma, e comunque ai tempi Zanzibar non si era ancora unito alla Tanganica nel dar vita alla Tanzania, perché qui la natura e la vita è molta più vita di quanta una pagina possa contenere, anzi, è una natura e una vita diversa, irraccontabile, quindi nei fatti irraccontata.
Certo, dire che guardare da vicino una mamma elefante che ti minaccia per difendere il suo piccolo. In questa versione accelerata della natura che vuole tutti super amorevoli mamme e subito dopo una versione lucidissima di Anna Maria Franzoni, o raccontare dell’impressione di trovarsi di fronte un leone che, come nella nota canzone, dorme dopo aver mangiato, vai a sapere cosa, o l’eleganza e la tenerezza di due giovani giraffe, lontane dal gruppo, a separarle da loro un fiumiciattolo o la nostra auto, giovani giraffe timorose e inesperte che, fatto noi qualche metro indietro, sono corse dai propri cari, leggere e bellissime, o rimanere sorpresi dal verso potente degli ippopotami, a decine in acqua, anche qui, mamma ippopotamo a tenere il cucciolo sotto il pelo dell’acqua per paura che qualche altro membro del gruppo gli voglia far male, o essere fissati da due iene, una grande e una giovanissima, percependo la loro feroce cattiveria, giusto un po’ stemperata dal sapere che visto il loro nutrirsi principalmente di ossa di animali morti poi la loro merda è bianca, e tante altre porterei dirne, in un giorno e mezzo, un giorno e mezzo reale, passato in mezzo a una natura davvero varia e lussureggiante, dalle acacie coi loro spini argentati ai baobab, passando per gli alberi ombrello, le zone sabbiose e semi desertiche, i laghi, i fiumi, la foresta, giustamente chiamata giungla, la savana, il bush, le zone fangose come quelle verdissime, ecco, dire che guardare d vicino una natura del genere sia molto di più che raccontarla o poterla raccontare suona come qualcosa di assolutamente retorico, di quelle cose che le leggi o le senti e dici “e grazie al cazzo”, come dire che guardare i tanti, tantissimi bambini e bambine con le loro divise di scuola, i capelli rasati, le taniche per riportare a casa acqua, oltre che libri e quaderni, case che probabilmente saranno capanne di fango e legno, magari munite di parabola, e guardali sempre sorridere con denti bianchissimi, felici, lì a salutare gioiosi con la mano, questo almeno le femmine, i maschi a volte a fare i duri, altri a mostrare il dito medio, anche questo sembra assolutamente retorico, ma è vero, come è vero che qui sembrano tutti bellissimi, anche nella loro povertà, le donne coi loro fianchi larghi e culi enormi e altissimi, gli uomini con le loro t shirt di finto Gucci o di una qualche squadr di calcio europea, i corpi asciutti e muscolosi, vorresti dire come quelli di certi animali visti al Safari, ma sai che suoneresti sinistramente razzista, e tu sai di non essere affatto razzista, hai la pancia, invidi quei fisici tonici, e quindi parli di retorica, lo dici, e lo scrivi, come scrivi della natura e della tua impossibilità di scriverne. Una cosa che ti spiazza, certo, e ti fa dire che ti senti frustrato, perché non riesci a fare il tuo lavoro, perché ha passato una vita a schivare la retorica come la merda dei cani sui marciapiedi in città, e ora non ti riesce più di farlo. E non ti riesce perché sai che quella retorica, la medesima che ti fa pensare come fossi un colonialista pentito che in fondo la loro semplice vita, loro di chi vive di poco in quelle capanne, ne hai viste centinaia andando e tornando da Selous, Dar Es Salaam come tappa di partenza e di successivo ritorno, a contatto con la natura e col sorriso in bocca, e mentre queste parole ti si compongono in testa scatta già l’imbarazzo per essere così radicalmente intriso di occidentalismo, incapace di guardare al mondo se non dalla prospettiva unica e univoca del tuo stare al mondo, certo, la consapevolezza che non avere la percezione della ricchezza degli altri, da noi sbattuta in faccia a tutti, anzi, pretese e esibita, leggi alla parola status quo, potrebbe anche spiegare quei sorrisi, ma così è tutto troppo Pier Paolo Pasolini pret a porter, pensi, vero ma semplicistico e semplificato, senza complessità e senza prospettive, ecco, sai che la retorica è in fondo il giusto modo per guardare a tutto questo, senza nascondersi dietro l’ironia, Foster Wallace lo ha detto bene una vita fa, lui che per anni ci si era nascosto dietro, senza giocare con le parole, in fondo anche John Barth se n’è andato, in una età decisamente più consona di Foster Wallace, e non per sua volontà, sempre che un suicidio per depressione abbia qualcosa a che fare anche vagamente con la volontà, o più in generale senza dover nascondere tutto sotto il tappeto del citazionismo postmoderno. Quindi decidi, anzi, decido, perché questo usare la seconda persona singolare è appunto uno di quegli stupidi trucchetti retorici, di godermi quello che ho visto, lasciandolo lì a germogliare, e per quello che ho visto non intendo solo nei tre giorni di Safari, ma anche in quella porzione di questi giorni che ho dedicato ad arrivare fino a Selous da Dar Es Salaam, facendo una full immersion nella vita della Tanzania, almeno visivamente, e poi di nuovo da Selous a Dar Es Salaam, una decina di ore tra viaggio e soste, più o meno forzate. Il Safari, se sarà il caso, lo racconterò nei dettagli nei prossimi giorni da Zanzibar, per ora, citerei per una volta Vasco, col quale ho a lungo lavorato e che per questo non cito mai, a metà strada tra pudore e overdrive, lo citerei non avessi detto che almeno stavolta non sarei ricorso alle citazioni, “oggi voglio rimanere spento”.