Visto che vi sarà evidente, sono molto sensibile alle ricorrenze, non per un particolare amore per i numeri, di cui sono appassionato a mia volta ma non necessariamente di quelli tondi, quanto piuttosto per quella faccenda delle coincidenze, che coincidenze non credo siano, ecco, visto tutto ciò mi è del tutto impossibile non notare due date che in questo 2024 andrebbero celebrate, anche se celebrate non mi sembra siano affatto. La prima è il settantennale del Premio Nobel per la letteratura a uno dei padri indiscussi della narrativa americana, Papa Ernest Hemingway. Era infatti la primavera del 1954 quando ricevette la famosa telefonata dall’Accademia di Stoccolma che gli annunciava la vittoria di quell’ambito premio, ambito anche da lui, che più e più volte in passato era rimasto deluso per non essere stato appunto nominato, telefonata che però lo troverà assai malconcio per una incredibile serie di incidenti che gli erano occorsi a inizio anno, mentre si trovava, toh, in Africa, proprio dalle parti dell’Africa orientale in cui siamo noi ora, per la precisione nel contiguo Kenya. Un duplice incidente aereo, roba non comunissima, ma nulla nella vita di Hemingway era mai stato comune, il primo è dovuto all’arrivo di uno stormo di ibis, per schivare il quale il pilota dell’aereo a bordo del quale si trovava con la compagna Mary è andato a sbattere contro un cavo del telegrafo, perdendo quota. Atterrati d’emergenza in Uganda, Hemingway e la moglie dovranno passare una notte al freddo, lui con una spalla rotta, finché l’indomani non sarà il compatriota Reggie Cartwright a offrirsi di portarli fino alla capitale Entebbe. Anche qui la sfortuna avrà la meglio, perché l’aereo prenderà fuoco e Hemingway, nel tentativo di sfondare la calotta del piccolo velivolo spingendo con la testa riporterà danni motori che lo accompagneranno negli ultimi anni della sua vita. Quindi nel 1954 arriverà il Nobel, accompagnato, vuole leggenda, dalla sua affermazione “Troppo tardi”, ma soprattutto arriveranno quei malanni che lo condurranno alla depressione e poi alla morte, nel 1961. Ma nello stesso anno, il 1954, ci sarà la prima stesura di Vero all’alba, suo romanzo uscito poi postumo nel 1999, ambientato proprio in Kenya e Tanzania, essendo stato il passaggio tra il 1953 e l’inizio sfortunato del 1954 periodo da lui trascorso in Africa orientale per il suo secondo safari. Il primo era avvenuto venti anni prima, nel 1933, sempre tra Kenya e Tanzania. Dall’esperienza di questo prima safari uscirà il romanzo Verdi colline d’Africa, nel 1935, oltre che un paio di racconti che finiranno prima nella raccolta Quarantanove racconti e poi in un libro ad hoc, Le nevi del Kilimangiaro e La breve vita felice di Francis Macomber. I quarantanove racconti di Ernst Hemigway sono stati il primo libro dello scrittore americano che io abbia letto, ormai una vita fa. Mio fratello Marco, di otto anni più grande di me, era un suo grande estimatore, al punto che la lettura del suo Il vecchio e il mare, ambientato a Cuba, lo indurrà giovanissimo a lasciare il liceo scientifico per iscriversi al Nautico, in Ancona. Per altro proprio Il vecchio e il mare, che nel 1953 gli era valso il Premio Pulitzer per la narrativa, gli porterà nel 1954 il Nobel, ma questo è un dettaglio forse irrilevante, qui. Non è stato però mio fratello a farmi leggere i Quarantanove racconti, ma Massimo Canalini, fondatore della casa editrice Transeuropa. Era, toh, il 1994, e io, abbandonata la chitarra elettrica e l’idea che nella vita sarei stato un musicista, avevo preso a frequentare la sede che si trovava in via Isonzo, a pochi passi dalla centralissima piazza Cavour. Transeuropa era in quel momento un po’ il centro del mondo, parlo del mondo editoriale, perché dopo aver azzeccato l’idea geniale di dar voce ai giovani, con le antologie Under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli, dopo aver quindi visto esordire quel giovane talento di Silvia Ballestra, come me marchigiana, dopo aver pubblicato anche il primo libro di un altro autore che presto avrebbe cominciato a raccontare il mondo, Pino Cacucci, di Falconara Marittima ma da tutti considerato inspiegabilmente bolognese, aveva azzeccato il libro d’esordio di un bolognese bolognese ancora giovanissimo, Enrico Brizzi col suo Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Nato come sorta di parodia giovanilistica di Blade Runner, ho letto la prima versione, so di cosa parlo, sotto le cure di un editor vigoroso come Canalini Brizzi aveva sfornato quello che tecnicamente si chiama “long seller”, un classico che continua a vendere perché continua a diventare una delle prime letture di chi si approccia alla narrativa, allora come oggi che, in autunno, uscirà dopo trent’anni il sequel. Non fosse bastato il testo, Canalini aveva anche avuto l’idea geniale di customizzare le copertine, facendole lui stesso a mano, con un pennarello tipo Uniposca, rendendo ogni copia unica, col risultato che un libro uscito per un piccolo editore era diventato un caso nazionale, e di lì a poco Brizzi sarebbe planato altrove, in Baldini e Castoldi.
In Transeuropa, quindi, c’era una certa frenesia, e la frequentazione da parte di un numero cospicuo di giovani che ambivano a diventare scrittori, me compreso. Il destino, o chi per lui, poi avrebbe deciso che avrei preso altre strade, seppur il mio primo libro uscirà per una costola di Transeuropa, quella PeQuod nata per ospitare l’ultimo libro dello scrittore osimate Gilberto Severini, e che proprio in quei giorni avrebbe visto mio fratello Marco subentrare a Canalini nei panni di editor. Il mio essere uscito lì con “furibonde giornate senza atti d’amore”, questo il titolo mutuato da un verso di Anime salve di De Andrè e con prefazione di Nanni Balestrini, che mi paragonerà in quella sede al William Gibson di Neuromante, come già detto uscito proprio nel 1984, sempre date tonde, proprio a Nanni Balestrini deve la spinta finale, perché sarà l’ex Gruppo 63 a avermi invitato come ospite al prestigioso laboratorio di scritture Ricercare, a Reggio Emilia, Massimo Canalini nel comitato scientifico, e sarà lui stesso a suggerire caldamente a Canalini, quindi poi a mio fratello, di pubblicare quei miei primi racconti, molto balestriniani più che gibsoniani. Tornando però ai Quarantanove racconti, in quei giorni di frequentazione della Transeuropa, Canalini, che aveva modi bizzarri di fare, come una sorta di guru vestito come uno dei Fab Four, con tanto di caschetto come ai tempi di She Loves You, ci suggerirà, forse dovrei dire imporrà, di leggere alcuni classici, dai quali, cito testualmente, andare poi a rubare intere frasi, parafrasandole. Quindi ecco i Quarantanove racconti di Hemingway, ecco tutti i racconti di Raymond Carver, ecco Tifone di Joseph Conrad, ecco Moby Dick di Hermann Melville e poi, a lato, il saggio sulla scrittura creativa di John Gardner, che di Carver era stato maestro. Andando a spulciare le prime pubblicazioni di Transeuropa interi stralci di quei libri sono facilmente rintracciabili, neanche si trattasse di un’operazione situazionista alla Bill Drummond dei KLF. Io, per parte mia, fanatico di Balestrini ma anche della musica rap, alla quale stavo dedicando proprio in quei giorni molto tempo, essendo oggetto della mia tesi di laurea in Storia Moderna, sì, lo so, il rap con la Storia Moderna non c’entra niente, e del resto non mi sono mai laureato, io, citare citavo, ma lo facevo attingendo a altre fonti, ma i Quarantanove racconti di Hemingway li ho divorati, e di lì un po’ tutto ciò di Hemingway che trovavo, perché mi piaceva quella sua scrittura secca e muscolare, quelle trame comunque avvincenti, di chi dice che si deve scrivere solo di quel che si conosce e decide quindi di vivere una vita estrema, tra guerre e viaggi, per poterne poi scrivere. Hemingway, poi passo oltre, è stato uno dei nomi più importanti della cosiddetta Lost Generation, quel gruppo di artisti e intellettuali nati a ridosso del passaggio tra ottocento e novecento, lui era del 1899, come mio nonno Mario, vissuti a lungo in Europa. Una generazione che ha vissuto l’età di passaggio tra giovinezza e età adulta nel bel mezzo del passaggio tra le due guerre mondiali, con una vena di disperazione che, non a caso, per Hemingway, prevederà un epilogo tragico come il suicidio, avvenuto infilandosi un fucile in bocca. La generazione a loro successiva, quella dei miei genitori, per dirla con le parole di Oliviero Toscani, di cui recentemente ho visto una bella intervista fatta da Luca Telese su La7, sarà una generazione che aveva “solo futuro”, il testo di Forever Young di Bob Dylan citato a mo’ di manifesto. Certo non un periodo facile, quello della ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, ma una possibilità di futuro plausibile che ha fatto la differenza. Il fatto che il testimonial chiave della mia generazione sia invece incontrovertibilmente quel Kurt Cobain che, toh, sempre in una data col 4, il 1994, deciderà di spararsi a sua volta un colpo di fucile in bocca, qualcosa ci dice. Nei fatti, Papa Hemingway sosteneva fermamente che non si può scrivere se non di ciò che si è vissuto, che si conosce. E lui ha molto vissuto, inviato di guerra, reporter, giramondo, forse anche per questo ha molto scritto e sempre in maniera così vivida. Più recentemente è della stessa idea William T. Vollmann, a sua volta inviato di guerra, reporter, ma anche infiltrato, drogato per scrivere di droga, mercenario per scrivere di mercenari, il magnifico The Book of Dolores lo ha visto, letteralmente e poi letterariamente travestirsi per settimane da donne al fine di raccontarlo. Io, più davidfosterwallacciano, ho sempre pensato che la fantasia stesse lì anche per sopperire a certi impegni troppo impegnativi. Per questo, temo sbagliando irreparabilmente, non ho scritto molte delle esperienze che in gioventù mi capitava di vivere, specie sul fronte dei viaggi, io reporter per Gente Viaggi. Ho cominciato a un certo punto, quasi per caso, e forse si hemingwayanamente ho cominciato a vivere le storie che avrei voluto raccontare, andando poi a lavorare di fantasia quando era il caso. E cosa c’è di più hemingwayanamente hemingwayano di scrivere mentre ti trovi in quella terra che così tanto e così bene lui stesso ha raccontato? Certo, i tempi sono cambiati, all’epoca della Lost Generation non c’erano le tv tematiche e neanche i punti mille miglia. Quando si dice che oggi il mondo è più piccolo si dice forse una ovvietà, ma là si dice proprio perché negare l’ovvio è esercizio sterile. Quindi non potendo i luoghi da soli riempiere la pagina, anche in virtù del fatto che quelle stesse pagine le ha riempite uno come lui, tocca metterci del proprio, lavorando di stile, mescolando se è il caso le carte. Stavolta però è diverso. Perché dopo quattro, diciamo quasi cinque ore di auto su strade che chiamarle strade mi sembra già un atto di fiducia nell’umanità, siamo finalmente arrivati al Selous Game Park, dove per tre giorni vivremo l’esperienza del Safari. Safari che, fossi Hemingway, immagino, prevederebbe una carabina, mentre nel nostro caso ci vedrà munita di telecamera, fotocamera, cellulare e occhi, trattandosi di un Safari fotografico.