So che potrebbe suonare improbabile, con questa aura di “amo per turisti polli”, e in effetti non ho controprova che non lo sia, ma questa faccenda di “Hakuna matata” credo sia proprio vera. Abbiamo visto tutti “Il re leone”, e provato molta simpatia per Pumba, il cinghialone amico di Simba, che a un certo punto intona insieme al suo amico suricato la canzoncina “Hakuna matata”, tradotta in italiano come “Senza pensieri”. Pumba, che in realtà non è un cinghiale ma un Kumba, che è il modo in cui qui chiamano questa versione africana del cinghiale - in Disney spesso danno ai personaggi i nomi degli animali che antropomorficamente interpretano, penso a Titti, il canarino di Gatto Silvestro, che in realtà si chiama Tweety, cioè Cinguettio, così come Paperino si chiama Paperino e Topolino, Topolino - incarna lo spirito degli animali selvatici che vivono appieno il proprio rapporto con la natura, inseguendo quella filosofia zen del “Don’t worry” che un po’ tutti quelli che abbiamo incontrato e conosciuto ci hanno trasmesso. “Hakuna matata”, appunto, che è anche quello che ogni volta che chiedi qualcosa, o in cui magari provi a scusarti per qualcosa ti senti rispondere “Hakuna matata”. Parole in lingua swahili, l’Esperanto africano, sentite centinaia di volte al giorno. Anche oggi, terzo giorno a Zanzibar - in realtà secondo, visto che siamo atterrati in tarda serata - giorno in cui ci eravamo detti che avremmo passato il tempo al mare, e che invece, alla fine, abbiamo passato davvero in maniera sorprendente, passando dalla foresta alle grotte fino a vedere il tramonto sul mare.
Come sempre ci capita, quando si tratta di viaggiare, prima di partire, come fossimo due Irene Grandi, avevamo buttato giù un programma piuttosto particolareggiato di cosa avremmo voluto fare e vedere. solo che, a differenza di quasi tutti i viaggi, stavolta non abbiamo fatto un calendario per lasciare a Maurizio modo di darci tutte le dritte del caso. Dritte che ci ha in effetti dato, come evitare di andare a buttare via soldi per mangiare al ristorante The Rock, costruito in maniera molto suggestiva su uno scoglio, nella parte meridionale della costa est, o andare a stare nel carnaio pieno di turisti del Blue Safari. Ieri ci siamo presi un’ora di tempo e abbiamo quindi stilato un programma preciso, con la sola variabile della visita a Stone Town, dove vorrebbe accompagnarci lui, anche per presentarci Nelly, la sua compagna. Nelly, da che è arrivata con Maurizio da Londra, dove vivevano, ha preso a lavorare in un’azienda di prodotti di cosmetica, ovviamente mercato questo che qui può contare su una natura ricchissima dove andare a pescare. Non so per quale motivo ci eravamo detti che avremmo cominciato con una gita al mare, e siamo finiti col partire da una visita alla Jozani forest. La Jozani forest, come il nome lascia intuire, è una foresta. E uno - o almeno, uno se a vestire i panni di quell’uno sono io, non ho contezza che sia un pensiero poi così diffuso - uno sarebbe portata a pensare che Zanzibar sia solo mare, niente foreste e niente natura, niente che abbia a che fare con troppe piante. E invece la Jozani forest è una foresta che è esattamente una foresta, e in effetti Zanzibar in lingua locale non si chiama Zanzibar ma Jozani, che fa appunto riferimento alla facilità con cui qui crescono piante da frutto e verdure. Tre sono le parti che prevedono la visita alla Jozani forest, che va decisamente fatta con una guida, pena il rischio di non vedere niente: la Groundwater forest, la foresta delle scimmie e quella delle mangrovie. La Jozani forest non è troppo distante dalla costa orientale, nella parte sud dell’isola, ma non così vicino come quello che sto per dire potrebbe indurvi a pensare.
La Groundwater forest è piena di piante come eucalipti, mogano, palme e via discorrendo, fitta e umida. Entrando abbiamo visto che qui vivono un sacco di animali, compresi due che sono piccole passioni che negli anni ho preso a avere coi miei figli, coi quali condivido Reel presi da Instagram, ovvero lemuri e i gufi, e ne sono davvero tanti, una serie di animali che però non vedremo, a eccezione di una salamandra e un fottio di scimmie. A guidarci è un tizio bassino e di una certa età, che alla biglietteria, 72 dollari per noi sei, ci è stato detto avrebbe parlato italiano. Al punto che a noi si sono uniti una famiglia italo-spagnola, lui di Treviso, lei e la figlia di Madrid, età media dei genitori oltre i sessanta, con la figlia che durante il Covid ha fatto la Bocconi. É una coppia che scopriremo aver avuto una disavventura sanitaria, con lei cinque giorni ricoverata in ospedale con febbre e forte dissenteria. Scopriremo la cosa dopo aver familiarizzato con la famiglia italo-spagnola, dato che la signora ci chiederà se durante il Safari qualcuno di noi aveva avuto problemi di dissenteria, visto che loro avrebbero, di qui a breve, fatto quello che noi abbiamo fatto all’inizio del nostro viaggio. La guida, il tipo anziano e bassino di cui sopra, ha iniziato dicendoci che lui non parlava italiano, non parlava spagnolo, e a dirla tutta anche con l’inglese non è che fosse un campione, rinsaldando in me l’idea che qui si usa rispondere sempre di sì a specifiche richieste, come per una forma di rispetto o cortesia, tanto poi ognuno fa il cazzo che gli pare lo stesso.
Sia come sia il giro ai tre livelli - fingiamo di essere in un videogioco - è stato decisamente avvincente. Prima una full immersion nella vegetazione ricca e lussuriosa, dovuta al fatto che a mezzo metro sotto terra si trova ovunque acqua salata, e il terreno marrone scuro, quasi fangoso è lì a dimostrarlo. Poi vai di scimmie, decine e decine, a lanciarsi con le liane, come in Tarzan, a saltare di ramo in ramo, ma anche a farsi fotografare quasi in posa, abituate alla presenza pacifica dell’uomo da queste parti. Noi abbiamo evidentemente visto una minima porzione della foresta. Alcune avevano con loro anche cuccioli appena nati, piccolissimi, incapaci di stare da soli, in alcuni casi anche attaccati alla tetta per mangiare. Tipi diversi di scimmie, alcune con solo quattro dita nelle zampe superiori, alcune con cinque. Infine, la foresta delle mangrovie, tipica di questa fascia della terra (ne ho vista una enorme nel Borneo). Qui la cosa si fa sorprendente, perché l’acqua dalla quale le mangrovie - anch’esse di tre specie diverse – spuntano, è acqua di mare, che arriva fin qui con la luna piena e scende via via finché la luna scompare del tutto in cielo, per poi riprendere il proprio giro.
Anche questo uno spettacolo incredibile, indescrivibile per le capacità e le volontà del vostro affezionatissimo. Due passaggi memorabili, non fossero già memorabili i gesti e le parole della guida, che ripeteva ogni frase due, tre volte, con una enfasi che uno assicurerebbe più alla voce di Dio che nel canneto ardente annuncia i dieci comandamenti a Mosè più che a uno che sta indicando un geco su un ramo. Prima, quando il tipo di Treviso, che però vive da una vita in Spagna, ha detto alla moglie la seguente frase: “te l’ho detto che i milanesi sono come i tedeschi, organizzano sempre tutto”. Non avesse aggiunto la seconda parte della frase, immagino, avrei creduto ci stesse dando dei nazisti e avrei lavato la cosa col sangue. invece era un modo del tipo per esaltarci, dal momento che la moglie fin qui non aveva voluto fare neanche un’escursione, evidentemente non milanese, né tedesca. Registrata comunque la prima volta in cui mi si dà del tedesco, va ricordato anche il momento in cui la ragazza dell’altra coppia ci ha raccontato le sue disavventure, sottolineando come “per fortuna abbiamo fatto l’assicurazione dei viaggiatori, così avevamo tutto coperto”, frase alla quale mia moglie ha risposto un serafico “Si, l’abbiamo fatta anche noi” che, se mi avesse guardato in quel momento avrebbe impattato in un “ecco cosa c’era di importante che mi sono scordato di fare”. Chissà se riesco a farne una da qui per il resto della vacanza?
Giro assolutamente da fare, costo 12 dollari a testa, assolutamente meritati. Prima di passare alla seconda parte del nostro trip quotidiano, eccoci a fare pranzo presso la Food Court di Paje, che detta così uno si immagina una roba tipo Camden, o tipo lungomare di Riccione, invece è una zona abbastanza sgarrupata a pochi passi dal mare, piena di bancarelle che vendono quadri e tessuti, altri posti che dubito passerebbero l’ispezione dei Nas, che vendono da mangiare e varie e eventuali. Noi abbiamo optato per un posto spartano, completamente dipinto di bianco, spoglio e con solo tavoli e sedie. Abbiamo ordinato samosa al manzo e Tommaso e Francesco hanno optato per cheeseburger, il tutto dopo che, girando per la Court, sono rovinosamente caduto a terra, per altro con la videocamera al collo, rischiando di farmi molto male e distruggerla. O meglio, rischiando di distruggerla, perché male mi sono fatto male. Giusto quell’ora di attesa per i pasti - e considerate che eravamo solo noi sei gli avventori - ed ecco che siamo tornati alla macchina, diretti alla Kuza Cave. A questo punto dovrei aprire un capitolo sul nostro driver, un ragazzo abbastanza giovane, che porta i pantaloni sempre sotto la linea del buco del culo, un cappello da baseball in testa e guida la macchina, un suv da sette posti della Toyota molto spazioso, con il sedile sopraelevato e un cambio artigianale fatto con una specie di mazza anche essa da baseball. Dovrei, ma lo farò più avanti, in apposito capitolo.
Per ora vi basti sapere che la seconda tappa di questo trip giornaliero, qui lo chiamano così anche in assenza di acidi, è costituito dalle Kuza Cave, non troppo distante da Paje e ancor meno dalla Jozani Forest. Ho usato il plurale, perché immagino che di grotte ce ne siano diverse, ma si può visitare e si può fare il bagno solo in una, grande, con stalattiti e stalagmiti e un’acqua fresca e limpida, sprovvista di sale. Non sprovvista però di piccolissimi pesciolini che, come quelli che si trovano in certe Spa e ti fanno lo scrub ai piedi, ti pizzicano, come fossero zanzare sprovviste però di veleno. Ti pizzicano si fa per dire, perché in realtà pizzicano solo me, parlo di noi sei, di un gruppo di tre ragazzi inglesi e di due coppie extralarge di afro canadesi, sempre che così si chiamino le persone di colore del Canada francese. A parte la fatica, anche questa tutta mia, che del mio nucleo familiare sono quello che sa nuotare peggio e i pescim*rda che ti rompono il cazzo, direi altri nove dollari a testa spesi bene.
Ultima tappa della giornata Kae Beach, all’interno dell’unica baia che si trova nella costa orientale di Zanzibar. Un posto che, proprio in virtù del suo trovarsi a est, ma rivolto verso ovest, è appunto una baia e può offrire la suggestiva vista di un tramonto sul mare. Può… Potrebbe, non ci fosse un po’ di foschia mista a nuvole che occlude la vista all’orizzonte. Tutto molto bello, comunque, a parte la velocissima marea che nel giro di pochi minuti si mangia tutta la spiaggia, assai piccola, mentre tutta una serie di turisti se ne parte in barca con tanto di barbecue appresso. Tre ragazzi con t-shirt inneggiante al “Free Palestine” ad accompagnarli. Una foto di Marina e Lucia sedute sugli scogli, l’acqua del mare arrivata ai loro piedi, circondati da ragazzi locali, probabilmente operai del nascente resort con imbarazzanti bungalow a forma di cuore potrebbe essere la sintesi di questo momento. Momento preceduto da noi che si va tutti al The Rock, ristorante ultra cool in zona, costruito su una roccia. Ristorante cui non siamo andati, se non una parte di noi per dare un’occhiata al panorama, per altro bagnandosi perché nel mentre la marea si era mangiata la passerella. Bello, suggestivo e tutto, ma decisamente un po’ troppo turistico per i nostri gusti. Il tempo di risalire in auto e ritornare al Jafferji Beach Retreat per cena e poi a nanna, perché domani ci si deve alzare prestissimo per andare a vedere i delfini. Nel mezzo uno scontro decisamente poco violento con la natura, animale e umana, ma ve ne parlo più avanti.