Provate a immaginarvi questa scena. Una spiaggia di sabbia bianca. Attenzione, non chiara, proprio bianca. Bene. Su questa spiaggia immaginatevi dei ragazzini e dei bambini che corrono dietro un pallone, a riprova che il calcio sia davvero lo sport più democratico del mondo, fancu*o le Olimpiadi e fanculo il tennis. Sono tutti vestiti non da spiaggia, chi coi jeans, chi con calzoni corti, tutti con camice o t-shirt. Il solo a torso nudo, mio figlio piccolo Francesco, tredici anni a settembre, è il solo in costume e a torso nudo, oltre che il solo bianco. In spiaggia, a parte loro, un gruppo di ragazzi aitanti, alti di statura, occhiali da sole a coprire gli occhi, tuniche che lasciano scoperta una spalla dai colori rosso scuro e nero a coprire il corpo. Sono tutti della tribù Masai, e sono a poche decine di metri dai ragazzini e bambini che giocano a calcio. Sono riuniti, perché ormai la giornata è andata, sono le quindici e trenta, ora locale ventino e trenta. Loro sono parte dei cosiddetti Beach Boys, lavorano facendo da guide non autorizzate per i turisti, costano trattando un po’ meno di quelle ufficiali, e appena ti vedono non ti mollano, approcciandoti prima in inglese e appena capiscono che sei italiano nella tua lingua. A parte loro giusto un paio di donne in costumi locali, una fa le freccine, l’altra vende magliette e altri gadget. Dove la spiaggia finisce, oltre i giocatori e i Masai, c’è una distesa di acqua che presenta tutta una serie di tonalità di turchese. Con ombre più scure, dovute ad alghe, o nuvole, che coprono la vista al sole. A metà strada tra voi e l’orizzonte una striscia bianca, e se aguzzate la vista vedete bene che sono onde che frangono contro qualcosa. È la barriera corallina, che dando un senso al proprio nome fa appunto da barriera, il bianco della spuma delle onde è alto, oggi c’è vento, quindi non ci sono neanche zanzare. Oltre il bianco il turchese si fa blu scuro, l’acqua è più profonda, e Maurizio, poi vi spiego chi è, mi ha detto di evitare di andare da solo oltre la barriera, perché oltre le correnti a volte capita ci siano gli squali. Lui è esattamente il contrario degli allarmisti, quindi tenderei proprio a fidarmi. Dimenticavo, e non è certo un dettaglio da poco, dove inizia il mare, che è di per sé una immagine poetica, ci sono oltre cento imbarcazioni, che si perdono a vista d’occhio, piccole barche con un tettuccio dai colori quasi sempre sgargianti, ora lasciate lì, in vista della bassa marea. Ho detto centinaia, ma forse sono migliaia, uno spettacolo nello spettacolo, il cielo, celestissimo e punteggiato da qualche nuvola, è appena colorato da qualche deltaplano, o come diavolo si chiamano quegli affari che ti fanno volare mentre sei appeso con delle corde a una barca. Sulla sinistra, oltre la costruzione di un ristorante, costruzione che seguendo l’architettura locale prevede un tetto di paglia, come una capanna, si intravede Mnemba, la famosa isola di Bill Gates. Trovandoci in un luogo che da grande sfoggio di nomi fantasiosi, originariamente questa isola si chiamava Unguja, che significa cesto pieno di frutta e verdura, uno sarebbe portato a pensare che anche “famosa isola di Bill Gates” sia una immagine di fantasia, forse anche poetica, seppur poi toccherebbe capire cosa abbia di poetico il fondatore di Microsoft e soprattutto dando per assodato che sia un nome decisamente più recente di Mnemba o Unguja, in realtà è proprio l’isola di Bill Gates, nel senso che Bill Gates ne è proprietario, e è famosa perché è uno dei punti più visitati di questo arcipelago, più in virtù della sua bellezza che del suo proprietario. È lì, è anche lì, infatti, che si fanno le gite in barca per fare snorkeling, è sempre lì si va per nuotare coi delfini, Bill Gates si è limitato a comparsi quell’atollo, mica a crearlo. A comprarlo e a chiedere una sorta di dazio a chi ci si avvicina, dentro c’è un esclusivo resort, unico modo per visitarla, e anche questo è entrato in qualche modo nella narrazione, il multimiliardario che questua qualche dollaro a chi passa sotto casa sua.
Mentre immaginate, non è stato poi così difficile farlo, credo, il mare si sta mangiando neanche troppo lentamente qualche metro di spiaggia, per il fenomeno delle maree, la luna è piena in questi giorni, fenomeno che lascerà poi delle alghe in spiaggia, per lo scorno di qualche turista che pensa che fare le vacanze significhi necessariamente rompere i coglioni al prossimo. È anche per questo, per le maree, immagino, che le barche sono tutte a riva, ora, perché poi si pianterebbero contro qualche banco di sabbia, e per il fatto che qui a breve scenderà il buio, alle diciotto e poco più cala la notte, che poi sparirà, altrettanto velocemente, domattina, esattamente dopo dodici ore. Siamo a solo sei gradi oltre l’equatore, guardando versi il Tropico del Capricorno, il sole qui si palesa in maniera costante e precisa, è poi picchia in linea retta, come non accade da noi. Per questo, per questa precisione nel sorgere e tramontare ogni dodici ore, qui la gente conta le ore differentemente dal resto del mondo. Le sei, quando il sole sorge, è mezzanotte, perché lì inizia il giorno, e quando tramonta è mezzogiorno, inizia la notte. Roba strana, che in effetti è adottata da gente che se ne va in giro in tunica e occhiali da sole, come il John Belushi di Animal House (ma senza aver bevuto, a differenza che in continente, questa parte della Tanzania è al 95% mussulmana, in continente la percentuale scende al 50%, come per i cristiani, sulle doghe non saprei dire, ho visto diverse bandiere rasta in giro). A questo punto immaginate di incamminarvi verso il mare, superando la striscia di sabbia bianca, consapevoli che ve ne porterete via qualche granello, e non sto certo facendo riferimento a quelli che finiranno tra i vestiti e non se ne vorranno andare per settimane, ma a qualche granello che metterete dentro un contenitore di lenti a contatto, di quelli che avete preso una volta che in aeroporto non volevano farvi imbarcare con lo shampoo dentro il bagaglio a mano e vi siete impuntati a non gettarlo, fino a arrivare a comprare per una cifra decisamente superiore a una confezione di shampoo un set di tubetti e barattolini adatti appunti a portare liquidi in aereo, contenitori per le lenti a contatto nel quale metterete, guardandovi prima intorno con aria colpevole e guardinga, qualche granello di sabbia bianca, esattamente come ormai ventuno anni fa avete fatto a Kuraman, isoletta disabitata di fronte al Borneo Malese, per la precisione a Labuan, città che ancora oggi associate pavlovianamente alla Perla di Labuan, nipote di Lord Brooke e fidanzata di Sandokan, Kuraman che è stata identificata proprio come l’isola che ha ispirato Emilio Salgari nello scrivere i libri dei pirati della Malesia, lui che non ha mai lasciato l’Italia, limitandosi a giocare di immaginazione, mentre voi si, secondi italiani a esserci stati a Kuraman, non certamente lì, a Zanzibar, perché è a Zanzibar che siete, per la precisione a Matemwe, nel nord est dell’isola, nella spiaggia di fronte al Jeffereji Beach Retreat, e voi non siete voi, sono io, che ho usato voi come espediente narrativo per raccontarvi quel che stavo vedendo nel momento in cui ho iniziato a scrivere, seduto, su un lettino sotto un ombrellone fatto di legno, mia moglie stesa nel lettino di fianco al mio, i nostri figli sparsi per l’albergo. Una scelta radicale, quella di tornare a giocare con le parole, con lo stile, con la forma, chiedendo uno sforzo di immaginazione abbastanza inutile, a fronte di un racconto in realtà piatto, quasi di servizio. Una scelta che rovescia quanto detto ieri, non dico hemingweyano, sarei superbo nel paragonarmi a un Nobel, ma quantomeno descrittivo, l’uso della seconda persona plurale quasi naïf, ingenuo, rispetto a altri stratagemmi usati da me in genere, questo mio disinnescarlo qui, quasi costituendomi, ultimo colpo di reni.
Il fatto è che sono stanco, per i motivi che dicevo ieri, indubbiamente, ma anche perché tra preparativi, viaggio, Safari, ho dormito poche ore e accumulato una certa quantità di stanchezza, prendere un po’ le distanze da me non può che farmi bene, e non può che fare bene a voi che leggete, al minimo costo di esservi dovuti immaginare quanto vi stavo comunque descrivendo nei minimi dettagli, per una volta liberati dai peso di dover dar seguito alle mie paturnie personali. Del resto, nel nostro programma, oggi era il nostro giorno di detox, il primo a Zanzibar, secondo tempo di questo viaggio africano. Giorno di detox che in effetti è stato tale, senza programma, o meglio, programmato per essere senza impegni, senza mai uscire dal resort, complice l’ospitalità di Maurizio, il manager, che in realtà è esattamente il motivo per cui siamo esattamente qui. Io e Maurizio, infatti, ci siamo conosciuti anni fa a Sanremo, durante il Festival del 2018, il primo di Baglioni, nonché l’unico che ho fatto senza una testata, inaugurando l’epopea del “fuori sede” che quest’anno mi ha visto fare le mie interviste, da solo o con Lucia, sotto il marchio Bestiario Pop, al Villaggio del Festival con e per MOW. È stato anzi proprio nel 2018 che ho ideato questa cosa dei pranzi con gli artisti, ripresa quest’anno al Villeggio del Festival, in quell’occasione cuore del mio Sanremo. Ero lì sponsorizzato dal consorzio del Rosso Picemo, e in una settimana ho fatto, o meglio, ho preso parte a trentasei pranzi, tra Big e giovani, tutta a base di prodotti tipici della cucina marchigiana, credo siano praticamente venuti tutti. Tra gli altri, anche parecchi artisti lì come ospiti nelle sere dei duetti o, come nel caso che mi ha portato a conoscere Maurizio, lì di passaggio. Maurizio era infatti allora il manager del gruppo delle Zap Mama, un trio vocale composto da mamma e due figlie dal Belgio. Le Zap Mama stavano facendo concerti con Alex Britti, il cui manager era e ancora è un mio amico, Angelo, che sapendo dei miei pranzi si è proposto per la cena della finale, Io avevo come unico impegno andare poi ospite al Dopofestival di Edoardo Leo, Rocco Papaleo e Sabrina Imoacciatore, vittima di una sorta di censura dopo essere stato il solo critico musicale ospite fisso delle due edizioni di Nicola Savino e la Gialappa’s, per cui mi era parsa una ottima idea. Ottima idea che si è rivelata decisamente piacevole, parlo della cena, e ottima, per quel che riguarda l’aver conosciuto Maurizio, da quel momento mio amico. Negli anni successivi, dopo che si era trasferito qui a Zanzibar ma stava ancora lavorando principalmente nel mondo della musica areavamo anche messo su un gran bel progetto che però poi il Covid ha mandato a puttane. Nel mentre Maurizio è diventato manager di questa magnifica struttura nel nord est dell’isola, e qui abbiamo deciso di stare per i prossimi dieci giorni. Il Jafferji Beach Resort, tornerò a parlarne, è un gioiello di resort posto di fronte al tratto di costa nordorientale incorniciato dalla barriera corallina, l’ho detto prima, a pochi passi dall’isola di Mnemba, comunque comodo per raggiungere tutte le attrattive di un’isola comunque piccola. Il resort è del fotografo e scrittore Javed Jafferji, autore di oltre cento libri, Maurizio è il manager della struttura. Dormire nella Princess room, con tanto di terrazzo dedicato, con tavolo per scrivere, doccia e vasca da bagno appartato, e in stanza letto a baldacchino, di proprietà di un “collega” che ha pubblicato più libri di me, io sono per ora a quota novantacinque, dovrei arrivare a cento entro la fine del 2025, fa un effetto strano, volendo anche beneaugurante per il futuro.
Ora, converrete con me, avrei potuto proseguire sulla falsa riga dei giorni scorsi, e, che so, concentrarmi su questa nuova forma di colonialismo per cui le piccole capanne di fango e legno, immagino ce ne siano anche qui, hanno spesso attaccata da qualche parte la parabola, e questo lo si può leggere come volontà di stare connessi con mondo, ma molto più probabilmente è anche qui un modo per stare sotto al mercato, qui suppongo quello cinese, ma a me di pensare a queste cose ora non va, ricordate il detox, neanche quando i bambini e ragazzini che hanno giocato a calcio con Francesco e Tommaso, perché nel mentre si è unito anche Tommaso, i bambini hanno chiesto anche a me di giocare, ho detto no usando la pancia come scusa, ma in realtà volevo evitare di fare come Giovanni di Aldo, Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba e umiliarli, dicevo, neanche quando i bambini e ragazzini che hanno giocato a calcio con Francesco e Tommaso hanno chiesto loro un po’ d’acqua, o quando i bambini cui Lucia ha regalato biscotti e acqua hanno chiamato i loro amici, creando una sorta di coda, avrei potuto raccontare questo, e in parte con questo piccolo e banale escamotage del dire cosa avrei potuto dire, dicendolo l’ho in effetti fatto, ma oggi volevo proprio staccare la spina. Questo ha chiamato la passeggiata fino alla barriera corallina, le ore passate a ammirare il mare dai nostri lettini, ma anche le chiacchiere con Maurizio, parlando di musica musica, come ormai capita sempre meno spesso in Italia. Il fatto che questa cosa la stia scrivendo in quello che al momento dei fatti narrati è già domani, a Kae Beach, all’interno della baia che si trova nella parte bassa della costa orientale, in attesa di un improbabile tramonto nello stesso mare in cui il sole è sorto stamattina, è solo parte del fatto che la scrittura, anche quella che pretende dal lettore un fede cieca, complice una dichiarata veridicità nella narrazione, la realtà spiattellata come un dogma, è in realtà sempre e soltanto mediazione e finzione, ora il sole sta andando a fare velocemente il bagno in mare, mentre la marea si mangia tutta la spiaggia, stacco per un attimo, non ve la prendete a male.