Questo non è il genere di newsletter natalizia che sei preparato a ricevere, con auguri generici di un sereno natale e l’invito ad approfittare degli sconti festivi. Si chiama “Il giorno che ho lavato il mio abito nella fontana” e lo scrive Mario Calabresi. È la storia di Francesco Miele, pilota d’aerei, e di sua moglie Maria Donica, quando ancora non si conoscevano. Ma è anche la storia di una moto rossa, una Ducati 1098.
Francesco pilota aerei di linea, Maria fa la babysitter dopo essere fuggita da una Moldavia arida di aspettative. Lei è sull’autobus, seduta davanti con un vestito bianco e un mazzo di fiori, va a cena da un’amica. Lui passa con la sua Ducati 1098, Roma è una bestia strana che gioca con i suoi abitanti. La moto entra in rotatoria, accelera, c’è lo schianto. Maria ricorda il casco, un Suomy SR Sport Gamble: dadi truccati, una scala reale, la roulette, il triplo sette delle slot. Quel casco colorato racconta che chi va in moto è un giocatore, uno che scommette poco o tutto a seconda dei casi, spesso senza saperlo. Quel giorno Francesco si è giocato tutto. E ha vinto.
Nel bel mezzo dell’incidente Maria scende dall’autobus, tampona la ferita di lui e blocca l’emorragia con la cintura dell’autista. Ormai la gamba, coperta di sangue, è tenuta insieme dai jeans. Francesco viene trasportato dall’ambulanza verso chissà dove, mentre lei si ritrova da sola con l’abito impregnato di sangue. E va a lavarlo a una fontana.
I medici non riescono a ricucire la gamba, che viene amputata dopo un trasferimento in eliambulanza al San Camillo. Niente più gamba, niente più aerei, niente più vita. A Francesco la moto ha tolto tutto per dargli di più, come una divinità pagana che si diverte a scompigliare le vite degli uomini. Perché qualche giorno più tardi Maria riesce a rintracciarlo, i due si conoscono e finiscono per innamorarsi. È il 2007, Francesco sta tentando l’impresa disperata di tornare a guidare un aereo.
L’unico ad esserci riuscito con una protesi è Andrew Lourake, l’ex pilota dell’Air Force Two, l’aereo del vicepresidente degli Stati Uniti. I due si sentono via Skype, diventano amici, Francesco passa lunghi mesi in riabilitazione con l’obiettivo di sostenere l’esame per Alitalia. Prova la camminata con la valigia in mano e passa le giornate al simulatore. Il giorno dell’esame Maria va a pregare in una chiesa ortodossa sulla Via Appia. Glielo ha insegnato sua nonna a pregare, lei che in quarantacinque anni di vita contadina ne dimostra settanta. E che, un giorno di tanti anni prima, le disse di sposare un pilota d’aerei. Quel giorno Francesco passa l’esame e torna a pilotare.
Oggi Maria e Francesco hanno due figli, Riccardo e Francesca, e vivono assieme a Londra dove lui ha trovato un posto come pilota di linea per Easyjet.
Chi va in moto non può che confidare nella fortuna, credere che le cose possano andare bene. Altrimenti guiderebbe un’auto o resterebbe a casa. La vita a modo suo ci suggerisce lo stesso esercizio: crederci piuttosto che non farlo, provarci piuttosto che rinunciare. Con il rischio dello schianto ed il piacere della libertà. C’è una citazione del produttore americano Samuel Goldwyn che recita più o meno così: “The harder i work, the luckier i get”. Più lavoro duramente, più divento fortunato. Uno come Francesco sarebbe d’accordo.
"È tutto qui - racconta Maria a Mauro Calabresi per la newsletter di Natale - Sono stata fortunata. Siamo stati fortunati. Quando apro l’armadio, ogni mattina, vedo il vestito bianco. Non l’ho mai buttato anche se non ci entro più dentro. Mi serve a ricordare come è cominciato tutto, come da una tragedia possano nascere anche cose buone”.
Come la foto di Francesco sulla sua Ducati, questa volta con la protesi bene in vista. Perché l’avrà odiata e maledetta chissà quante volte, ma quel pezzo di ferro con due ruote lo ha portato sulla sua strada, quella che da solo non sarebbe mai riuscito a trovare.
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