Caro direttore della Gazzetta dello sport, Stefano Barigelli, la sua è una scelta. Ma è anche una scelta sbagliata. Ha scritto, rispondendo a Dagospia, che “la Gazzetta che dirigo non ha dato spazio alla contestazione degli ultras del Milan con cori offensivi, insulti e richieste di vendere il club, esattamente come non ha dato spazio a tutte le altre contestazioni degli ultras analoghe che ci sono state. E anche per quelle che ci saranno”. Ecco, benissimo. Così ha messo nero su rosa il fatto che non raccontate e continuerete a non raccontare mai la parte più scomoda, ma anche più viva, del calcio italiano. Non la racconterete mai per principio, non per cautela, non per delle analisi o delle valutazioni caso per caso. Per principio. Ma siamo sicuri che sia giornalismo, questo?

Avete presente lo spettacolo patinato della Serie A? Quello delle magliette special edition, dei saluti ai partner commerciali, dei trofei di cartone alzati in diretta Tv con le scritte “presented by”? Bene. Quello non è sport, è marketing. Lo sport vero è anche rabbia, frustrazione, tifo che sbrocca, cori stonati, striscioni sbagliati, così come sacrosante bordate di dissenso. I tifosi, in particolare gli ultras, è gente che ama a tal punto una squadra da volerla migliore, più rispettosa della propria storia, così appassionato da arrivare a eccedere nei modi e nei toni. Ma non raccontarlo perché ci sono “insulti” o “cori offensivi” è come non raccontare un comizio politico perché qualcuno ha urlato “buffone” verso il palco. E se quel politico avesse meritato l'epiteto per particolari demeriti, chi non era al comizio non avrebbe quindi il diritto di saperlo? Il giornalista racconta tutto, non solo quello che ci piace. Non a caso, il Testo unico dei doveri del giornalista, quello che dovrebbe stare sulla scrivania di ogni direttore, dice che bisogna riportare la verità sostanziale dei fatti (art. 2), garantire completezza e pluralismo (art. 5 e 6) e rifiutare ogni forma di censura, anche quella “per bene”, quella che si maschera da buongusto (art. 9). Quindi no, una testata non è obbligata a riportare parola per parola ogni insulto lanciato dalla Sud. Ma sarebbe obbligata a dire che c’è stata una contestazione, che esiste un malcontento diffuso, che una parte di pubblico non si riconosce nella proprietà e nella squadra. Perché il nostro lavoro non è quello di public relations, ma quello del giornalista. In questo caso sportivo. Cioè di chi racconta lo sport per quello che è - con analisi, prese di distanza e critiche - ma non per come lo vorrebbero i dirigenti dei vari club, gli investitori che si relazionano con gli uffici commerciali o il direttore del principale giornale sportivo italiano.

E il paradosso è che le proteste ultras spariscono dalla Gazzetta ma diventano virali sui social. E chi segue il calcio, oggi più che mai, ne è consapevole. Il risultato? La Gazzetta dello Sport sembra sempre più il Bollettino Ufficiale della Lega Serie A, mentre la realtà viva e pulsante del calcio si sposta altrove. Direttore, si è mai chiesto perché i giovani leggono meno o per nulla i giornali? Forse perché capiscono quando gli si nasconde qualcosa. E quando succede, allora mollano e vanno altrove. Perché se l’informazione tradisce, non la difende più nessuno. Lo sport è amore, ma è anche conflitto. E se non diamo spazio ai conflitti, compresi quelli che ci piacciono meno perché puzzano di sudore e birra scadente, allora stiamo trasformando lo sport in intrattenimento. E il giornalismo in un foglio promozionale da sala d'attesa. Caro Barigelli, non è obbligato a fare il resoconto dettagliato di ogni slogan o insulto degli ultras, ma se non riporta nemmeno i motivi di questa frustrazione, condivisa da tantissimi cittadini che non fanno parte della curva, allora ci sta dicendo che la realtà non interessa più alla Gazzetta. E se un giornale smette di raccontare la realtà, allora smette di essere un giornale.
