Davvero qualcuno poteva essere come Jannik Sinner e non ce l’ha fatta? Sono queste le parole di Gianluigi Quinzi, che racconta con dispiacere e con rammarico la sua esperienza. Un tennista con un futuro promettente davanti, che aveva vinto Wimbledon Juniores nel 2013 ma che a causa di mancanza di sostegno non è arrivato in cima al tennis mondiale. Gli avevano inculcato la cultura della vittoria senza però fornirgli gli strumenti per arrivarci davvero: “tutti immaginavano che quel sogno potessi realizzarlo io ma guardando indietro a quei momenti mi rendo conto che non sarebbe stato possibile. Perché non avevo costruito le condizioni, non solo per riuscirci, ma anche per provarci. Quando ero juniores per me contava solo vincere e questa era la filosofia che tutti quelli che avevo intorno mi avevano inculcato. A me interessava portare a casa più partite e più trofei possibili senza pensare a migliorare tecnicamente”. Poi però qualcosa è cambiato.
“Quando sono uscito dalla comfort zone affrontando il circuito maggiore non ero attrezzato e non potevo più colmare il gap. Guardate proprio Sinner, che è un orgoglio nazionale non solo per lo sport: quando arrivo a Bordighera a 13 anni, coach Piatti gli insegno subito che il tennis è al 50% vittoria, perché vincere rimane una benzina fondamentale, e al 50% volontà di imparare e migliorare. Per me quelle percentuali sono sempre state 90% e 10%”. E quanto hanno inciso le aspettative dei genitori sul suo percorso? “Non c'è la faccio a biasimarli, hanno investito molto su di me, mi hanno mandato in Florida da Bollettieri, che era il più grande di tutti, quando avevo 8 anni. Ma adesso che faccio l'allenatore e sono a contatto soprattutto con i ragazzini, capisco che tante volte quello dei genitori con lo sport dei figli è un rapporto malato. Magari perdono un paio di partite di fila e subito papà e mamma chiedono di cambiare sistema di allenamento, minacciano di portarli da un'altra parte. Non accettano che ciascuno abbia i suoi tempi di maturazione, vogliono il tutto e subito”.
Quindi? “Se devo dare una risposta complessiva, ammetto che le aspettative dei genitori spesso sono un ostacolo alla crescita dei figli”. Ma adesso anche lui è diventato coach: “Un ruolo delicatissimo, non si allena e basta. Guardate Sinner: Vagnozzi e Cahill sono la sua seconda famiglia, lo hanno protetto nei momenti di difficoltà. Purtroppo, vedo ragazzi che a 18 anni sono già sfiancati emotivamente dal tennis senza aver ancora ottenuto nulla. Perciò cerco di non fargli commettere i miei stessi errori. Che poi errori forse non lo erano, piuttosto scelte sbagliate. Dunque, la mia filosofia è semplice: la vittoria in sé non conta nulla se non è accompagnata da un lavoro su sé stessi di crescita personale e tecnica. E poi non devono mai smettere di divertirsi. Se non ti diverti più è il momento di fare altro”.