29 ottobre 2006, Valencia, circuito di Cheste. Papà Earl, al muretto box Honda Repsol, è piegato su sé stesso: la testa china, i pugni stretti e le palpebre chiuse contengono una tensione straripante. La regia internazionale inquadra anche mamma Rose, che guarda l’ultimo giro sulla seggiola del figlio. Tiene le gambe incrociate così come le dita della mano destra; le labbra stirate in un sorriso nervoso lasciano presumere che, dietro le lenti scure, brillino occhi lucidi. Sventola la bandiera a scacchi, le emozioni hanno pista libera. Nicky, il figlio, ce l’ha fatta. Il ragazzo del Kentucky è campione del mondo. Nel giro d’onore si leva il casco, sprigionando una fontana di lacrime che gli allagano il viso.
Nicky Hayden rappresenta il sogno americano del ragazzo di campagna che, partito da lontanissimo, è arrivato sul tetto del mondo. Owensboro, al confine con l’Indiana, è una cittadina immersa nel verde dei prati e nella polvere di strade sterrate. È l’involucro di un’infanzia spensierata per quattro fratelli che, dopo la scuola, imbracciano i manubri di piccole moto da fuoristrada e derapano fino a quando l’oscurità non li ferma. Il sentiero infangato, che si snoda tra il maneggio dei cavalli e il pollaio di casa Hayden, è il circuito in cui tutto è cominciato. “Nicky veniva spesso al Ranch, era sempre uno spettacolo vederlo e cercare di rubargli qualche segreto battagliandoci insieme - raccontava di lui Valentino Rossi - è stato uno dei più veloci flattisti del mondo e prima di passare all’asfalto ha vinto le più importanti gare di Flat Track americano”, le parole del Dottore sulle origini dirt track di Hayden. Nicky ha sempre conservato l’educazione impartitagli da una famiglia numerosa e di sani principi. Il suo essere così polite, tranquillo, contrastava con un inglese sporco, rustico, costellato di vocali trascinate. L’intercalare preferito era you know, attraverso il quale Nicky riusciva a trasmettere tutto il suo calore e la sua bontà, come una canzone country sparata in radio nel mezzo di una tempesta.
Kentucky Kid aveva visto la sua prima gara dal vivo a Laguna Seca nel 1994 e, quel giorno, si convinse definitivamente di voler diventare un pilota. “Crescendo non ho mai avuto un piano B. Le due ruote sono la mia vita; non conosco nient’altro, la mia famiglia non conosce nient’altro, non ho mai fatto nient’altro”. A Laguna Seca tornò 8 anni dopo celebrando il trionfo nel campionato americano Superbike, che gli valse il passaggio diretto in MotoGP come compagno di squadra di Valentino Rossi sulla Honda ufficiale. Sempre sul circuito californiano vinse la sua prima gara nel Motomondiale nel 2005 e, durante il giro d’onore, lasciò salire sul codone della sua HRC papà Earl, il quale non esitò a sventolare la bandiera a stelle e strisce davanti al pubblico in delirio. La stagione seguente, sulla stessa pista, Nicky bissò il successo, ipotecando quel titolo mondiale che, al termine di mille peripezie sportive, conquistò nell’atto finale di Valencia.
Tuttavia “Il Mostro della Laguna” era esattamente l’opposto di una creatura aggressiva e bizzarra. Senza alcuna retorica si può affermare che nessuno abbia mai parlato male di Nicky e che tutti, ma proprio tutti, lo vedessero spesso sorridere. Quello di Hayden era un sorriso leale, specchio della sua anima. Perché il ragazzo di Owensboro era stato così intelligente da capire che coronare il sogno di una vita non capita a tutti. Nicky ci era riuscito, aveva riportato gli States sul trono delle due ruote dopo anni di digiuno, risvegliando i tifosi di Rainey, Lawson, Schwantz. Sapeva perfettamente di non possedere un talento fuori dalla norma eppure, a modo suo, aveva battuto i fuoriclasse. Per questo si godeva il presente, contento di trovarsi dove aveva sempre desiderato, così umile da sentirsi privilegiato in seguito alla sua realizzazione. A chi insinuava che il titolo mondiale gli fosse stato regalato da Valentino lui rispondeva, serafico, col suo slang: “Ehi ragazzi, la pista dice sempre la verità!”.
Kentucky Kid era il compagno di squadra ideale. Non si arrabbiò quando nel 2007, nonostante fosse campione in carica, la Honda costruì la moto su misura per Pedrosa. Dall’altra parte del box vide avvicendarsi gente come Valentino Rossi e Casey Stoner, ricevendo solo ammirazione. Non si lamentò mai (e ne avrebbe avuto tutto il diritto) con le Case che lo preferivano nel ruolo di gregario piuttosto che protagonista di un progetto tecnico. Nicky era consapevole. Consapevole che le priorità della vita fossero altre. Consapevole che in sella ad una moto, con la famiglia al suo fianco, lui sarebbe stato sempre felice. Disse che a sessant’anni si sarebbe visto ancora in piega, o comunque coinvolto nel motociclismo. E a noi, sei anni dopo la sua scomparsa, capita di cercarlo in griglia di partenza. Di scovare Nicky e il suo 69, “Comodo perché si legge bene anche con la moto cappottata dopo una caduta”.