Fernando Alonso ci ha abituati alla rabbia. Ai team radio furiosi, alle interviste piene di rancore, insoddisfazione, gelosia verso chi - più fortunato di lui - negli anni ha collezionato premi, successi, titoli mondiali. Ma è sempre stata la sfida, la cosa che più gli mancava in pista. Negli anni scuri della sua carriera in Formula 1, tra scelte sbagliate e passaggi di sedile sfortunati, non sono mai stati i numeri degli altri a farlo stare male. Sono le occasioni, quelle che più gli sono mancate. La possibilità di dimostrare con i fatti, orgoglioso com'è sempre stato, che il suo talento non è appassito, non è stato sostituito da quello dei giovani amatissimi della nuova generazione, non se n'è mai andato da lì.
La fame è sempre stata il suo segreto, e quella Fernando Alonso non l'ha mai persa. Ci vuole dedizione che vive e cresce dentro da 40 anni per essere così, per non smettere mai, per non stancarsi di vivere nelle retrovie, lottare per i punti, osservare da dietro sempre gli altri vincere, crescere e cambiare. Ci vuole una speranza che è una condanna e che è una benedizione.
È il prezzo da pagare di chi, come ha ammesso lo stesso pilota spagnolo, a casa non sa stare. Non ci è mai stato, non sa come si fa. Come si costruisce qualcosa che sia lontano dal paddock, come si fa i conti con il tempo che passa, le cose che cambiano.
Ma allo stesso tempo è la fortuna di chi a 41 anni compiuti sopravvive nel branco con la testa alta del leone più agguerrito del gruppo. Non ha i titoli mondiali di Lewis Hamilton, non ha la macchina più veloce di Max Verstappen, non indossa più la tuta rossa dei sogni di Charles Leclerc. Ma resta il più duro da affrontare, il più tosto contro cui confrontarsi. Non è una questione di mettere a confronto il talento, in Formula 1 non lo è mai: è qualcosa che appartiene alla vita che Fernando ha scelto, e a quella che così facendo ha deciso di non scegliere.
La sua fame l'ha portato dove altri al suo posto non sarebbero riusciti ad arrivare, e alla fine per questa dedizione eterna, questa speranza purissima, è stato premiato. Il passaggio in Aston Martin, l'ennesima mossa azzardata della sua carriera, ha pagato là dove in tanti non avrebbero mai provato a scommettere. E ha avuto ragione.
Contro chi in Formula 1 non lo rivoleva neanche, dopo il suo ritiro nel 2018. Contro chi lo considera un esaltato, un antipatico, un talento mai riuscito o un sopravvalutato. Contro anche sé stesso, chissà quante volte. Quando si sarà guardato allo specchio e si sarà detto: basta, che senso ha? Quando avrà visto gli altri, tutti gli altri, con l'età che scende ogni stagione, i visi puliti, le statistiche di chi "è nato nell'anno del suo esordio" o "aveva cinque anni quando ha vinto il titolo mondiale".
Ma Fernando Alonso non ha mai smesso. Ha fatto quello che tanti grandi, grandi come lui o più di lui, avrebbero voluto fare. E questo podio di rughe e fame è per loro. Per Valentino Rossi, che in un addio ha racchiuso la fine del suo essere sempre eterno bambino. Per Roger Federer, che due ginocchia distrutte hanno fermato un match che sarebbe potuto durare per altri dieci anni. Per tutti quelli che come loro hanno dovuto trovare un altro centro, dopo un saluto sofferto al loro sport fatto di anni senza vittorie, soddisfazioni, gloria.
Perché il podio di Alonso, e la sua gioia bambina che si apre via radio urlando "quanto è bello guidare questa macchina", è fatto di quella cosa lì. Del dover dir basta, della fame, del tempo che nessuno vorrebbe veder passare mai.