Il calcio è in grado di ribaltare tutto o quasi. Talvolta non servono neppure i fatidici novanta minuti più recupero, a volte ne serve qualcuno in più. A Marcus Thuram è servita una manciata di partite gagliarde per allontanare via l’idea di un’Inter “orfana di Romelu Lukaku”. Perché dopo la rabbia, gli strali e i fischi, l’unica domanda adesso è: Lukaku chi? Il definitivo passaggio di consegne fra i due – raramente ce ne sono stati di così plateali –, ieri a San Siro. La Scala del calcio fischia l’ex idolo belga. Ma la partita è scorbutica, dopo un primo tempo spumeggiante da parte dell’Inter, il secondo tempo si apre all’insegna dei nervi. I minuti scorrono e lo 0-0 è uno spettro pronto a materializzarsi, anche perché Lautaro contro i Giallorossi non la mette praticamente mai. Ci pensa allora Marcus Thuram, 26 anni, primo anno all’Inter, uno che al popolo nerazzurro si è presentato con un golasso nel derby stracittadino. Così il gigante Romelu esce, nonostante la mole sempre minacciosa, sfottuto e impalpabile. Mentre Thuram, non propriamente il suo sostituto naturale, mostra il sorriso a trentadue denti di chi prende la vita con la giusta filosofia. Definitivamente benvenuto, Marcus, che sai lavorare e sorridere. Adieu, ingrato Romelu.
Viene spontaneo avvicinare i due, confrontarli. E notare alcune differenze clamorose. Dietro Marcus Thuram c’è la figura di padre Lilian (grandissimo difensore di Parma, Juventus, Nazionale francese), ottimo tutor soprattutto negli anni giovanili, nonché uomo in grado di trasmettere al figlio qualche valore realmente sportivo. Giochi a calcio, dovrebbero averti rimpinzato di valori sportivi, no? Ehm, non è detto. Nell’epoca degli ingaggi d’oro c’è chi vuol farti credere che andare ad allenare o giocare in Arabia Saudita in una squadra che si esibisce davanti a 700 spettatori (nella quarta serie inglese se ne registrano di più) sia una scelta di vita, quindi no, Marcus Thuram che un paio di anni fa rifiuta il Psg è più una rarità che una consuetudine. Un giocatore che sceglie di non fare il passo più lungo della gamba (approda all’Inter solo dopo aver convinto in Bundesliga) non è una consuetudine. Se Marcus è uno che ha la testa per allontanare le sirene parigine, Romelu è uno a cui, con invidiabile poker-face, piace pigliare per il sedere un po’ tutti, compreso forse sé stesso. La scorsa estate, in questo senso, è stata un inarrivabile apice. Big Rom si rende protagonista di una manfrina che risulta troppo oltraggiosa anche per un pubblico moderno ormai pronto all’idea che nel nuovo secolo i calciatori – persino gli idoli di una curva – possano essere soprattutto dei mercenari. Lukaku è andato oltre, prima acquistando lo starter-pack di cui si deve dotare ogni potenziale beniamino della curva nerazzurra (le dichiarazioni d’amore verso la società, la maglia baciata, l’anti-juventinità), poi buttando tutto in discarica in tre mesi di esasperanti silenzi, mezze rivelazioni trasversali, tira e molla in cui dalle paludi del “si dice” è emerso pure – e no, dai! – il nome della Juventus.
Così Lukaku, “lo stratega del contratto migliore” che in Premier League (fronte Chelsea) non sarebbe tornato neppure dipinto, ieri sfila a San Siro, dove per tre stagioni è stato imperatore, e si ritrova contro tutto lo stadio, mentre Thuram, leggiadro, sigilla la sfida. Si sarà già consolato con l’ingaggio, Romelu, ne siamo certi, ma che freddo attorno a quest’omone solitario che ieri, in campo, quasi non s’è visto. Questione di struttura, non solo fisica. Anche famigliare. Marcus ha dietro un padre che si batte per i diritti civili e ha sempre mostrato di non avere un pallone al posto del cervello. “I messaggi della politica talvolta sono pericolosi – aveva detto Thuram senior, un paio di anni fa al Festival dello sport –, ci fa credere che ci siamo noi e ci sono gli altri, con meno diritti. Ma quando ho davanti una persona io penso che devo aiutarla perché spero un domani possa fare lo stesso con me, senza domandarmi da dove vengo. Guardare le cose da un’altra angolazione vuol dire non essere più al centro e questo fa paura, ma si può fare. Non dobbiamo pensare come francesi, italiani o senegalesi, o come uomini o donne, ma come esseri umani con gli stessi diritti”. Tutto troppo semplice? Non se la platea è una platea sportiva più abituata a sentir dibattere di 3-5-3 o 4-3-3. E dall’altra parte? Dall’altra parte – e in Italia ce lo ha “rivelato” Zlatan Ibrahimovic nel mezzo di un derby milanese particolarmente rovente – abbiamo la mamma di Lukaku che fa i riti vudù. Una storia che in Inghilterra era già nota dai tempi in cui Big Rom militava nell’Everton. All’epoca la svelò il principale azionista dei Toffees, Farhad Moshiri, che raccontò come Lukaku sì rifiutò di prolungare il contratto con il club di Goodison Park dopo un rito materno che gli diceva di andare via da Liverpool. Un’imposizione, più che altro, perché come ebbe a dire Moshiri “non ci fu verso di far ragionare Lukaku, che poi scelse Manchester”. È presto per pensare a Thuram come all’erede di Lukaku, anche perché i due giocatori sono diversi. Sia sul campo (dove però, in comune, hanno la fame di gol) e ancor di più fuori. Lo stile sobrio di Thuram sembra in netto contrasto con la predatoria goffaggine di un Lukaku che, fra agenti e procuratori, si è smarrito troppo presto, trasformandosi in uno di quei girovaghi del calcio che, nel tentativo di strappare il contratto sempre superdeluxe, smarriscono quella dimensione umana che permette di farsi amare anche al di là dei gol e delle prestazioni.