A volte, è un confine sottile, quello che separa la vittoria dalla sconfitta. Sottile come le linee che formano la silhouette di un campo da tennis. Che poi, quelle del Philippe Chatrier, siano state protagoniste del match più lungo della sua storia, è un mondo tutto da scoprire. Un vaso di Pandora, che sputa perfezione e difetto, tenacia e fragilità. Quello che la finale del Roland Garros ha lasciato a tutti noi, a chi del tennis ne fa una professione o una passione, oppure entrambe, è un regalo difficilmente replicabile, eppure replica di qualcosa che — in passato — ha portato la firma di Rafael Nadal e Roger Federer su tutti.

Un dono, sì, ma di quelli che sanno tanto di condanna, perché sarà difficile dimenticare quanto andato in scena sul centrale di Parigi, un epilogo d’arte, per uno sport che è tutto, tranne che come gli altri. Al bivio tra bellezza e crudeltà, una danza a due così vulnerabile nel suo essere forte, che avrebbe voluto Jannik Sinner e Carlos Alcaraz alzare lo stesso trofeo. E chissà che, in una dimensione irreale, le 5 ore e 29 minuti del tennis più bello degli ultimi tempi, non strizzi l’occhio al capitolo finale che nel 2008 aveva lasciato la Cattedrale del tennis incastonata tra l’incredulità e l’adorazione. Incastonata tra un trionfante Nadal e un Federer desolato, dopo una lotta agli estremi della rete che si era intersecata a quella tra la pioggia e il sereno.
Basta un attimo per fare il paragone, e non certo per aggiungere ulteriore pressione a quella che le due stelle della generazione Z del tennis già portano sulle spalle. È fisiologico e innegabile, però, come l’esplosività del prodigio spagnolo si specchi così naturalmente nella compostezza dell’altoatesino e come, in un abbraccio, abbiano dipinto l’ennesimo quadro inverosimile, siglando una volta ancora la storia della racchetta.

Che poi nel tennis, come in ogni disciplina sportiva, ci sia un solo vincitore, non è un segreto. Uno solo alza le braccia al cielo, si nasconde il volto con le mani, sorride o piange e, a volte, fa ognuna di queste cose, in un rituale scandito da un orologio biologico che segue l’istinto delle emozioni più forti. Certo, è altrettanto chiaro che la terra rossa sia una storia a sé. Negarsi il piacere di distendersi su di lei, significa rinunciare alla tentazione della più splendida delle pose supine, quella dove una tinta bruciata si impossessa di ogni centimetro di pelle scoperta. Così, Carlitos, si è abbandonato alla gioia del quinto Slam, sporcandosi di quel color ruggine che ha così tanto amato il suo connazionale Rafa. Il trofeo di Francia torna fra le sue mani a riconferma del fatto che — dopo Roma — è sempre lui l’unica sbavatura lungo il percorso idilliaco del numero 1 del mondo. In quel ben tornato alla sua nemesi, dopo tre mesi di silenzio.
Inarrestabile, e nient’altro. Irreale, se volete. Perché apparire così fresco (o essere bravissimo a nascondere la stanchezza) dopo cinque set giocati al massimo livello, non è roba da tutti, ma di Carlos e basta. C’è qualcosa nella forza fisica di un ragazzo appena ventiduenne che va così fieramente a braccetto con una mentalità d’acciaio. E fa quasi sorridere, ora come ora, quella reazione umana sfociata in un pianto genuino, al termine della sconfitta subita per mano di Nole Djokovic nella finale olimpica. Una che quasi stride — o si incastra alla perfezione — con la fame con la quale, domenica, si è messo al riparo dall’orlo del precipizio. Fa sorridere e ci ricorda che un giocatore non è sinonimo di un codice univoco, ma bensì di combinazioni che, nel momento del bisogno — sia esso per sopravvivenza o sfogo — si palesano al mondo, benvenute o meno.
E poi cosa dire di Jannik Sinner, rientrato dalla porta principale del Tour appena in tempo per deliziare Roma. È volato in finale, Jannik, come a cancellare quel periodo di stop nero che così tanto incantava le testate di tutto il mondo. E poi subito uno Slam, quello della Coppa dei Moschettieri. La seconda finale in faccia ad una racchetta abbandonata e nel nome del riscatto. Chi non conosce il tennis, guardando solo al punteggio, sottolineerà come queste finali siano entrambe state perse. Chi invece, il tennis lo conosce, capirà che dietro a questa duplice sconfitta, al capitolo finale, si nasconde la vittoria più grande di tutte. Perché, dopo inimicizie, accuse e voci, Jannik è tornato a respirare facendo quello che più gli piace, più forte del tempo e della pressione. Di tutti quelli che lo volevano veder cadere. E a respirare è tornato proprio nella sconfitta che più di tutte, forse, il fiato gliel’ha tolto. Così lontano dal suo cemento. Perché non è solo una serie di numeri, quella che sul centrale parigino ha incantato tutti. È tutto quello che è stato e che, nel suo essere passato, aggiunge valore all’epilogo presente. Che nel suo essere negativo, ha un’anima profondamente positiva.
Che comunque potesse vincere questa partita, non c’è dubbio e il punteggio ci dà ragione, quando sul 2 set a 1, 5-3 e 40-0, la volpe aveva il mondo ai suoi piedi, tutti e tutto tranne il suo avversario. Ma funziona così, nel tennis, perché il firmamento non è mai tuo finché non lo tocchi con un dito, finché — dall’altra parte — non decidono che sia veramente tuo.
Funziona che chi è in vantaggio ha spesso solo l’illusione di esserlo. Perché c’è sempre uno yang la cui energia non si assopisce mai del tutto. E se quello yang è un ragazzino da Murcia, allora non ce n’è davvero per nessuno. Ma va bene così, in fondo.
Simone Vagnozzi, allenatore di Sinner, esordisce sui social con una riflessione e una pennellata finale che nella sua semplicità rivela la verità più assoluta. “Questa storica partita ti renderà ancora più forte”. Perché è proprio vero, che dalle sconfitte pesanti si esce più maturi, a costo di cadere nel cliché, a costo di fare di Sinner l’emblema del perdente-vincente. Se serve a dare credito a quanto dato e dimostrato in campo, errori compresi, allora — questo prezzo — permetteteci di pagarlo volentieri.
E se sul Philippe Chatrier una dicitura riporta: “la vittoria spetta al più tenace”. D’altronde, chi tenace non lo è stato fino all’ultimo, lo è stato a bordo campo, assorto nei pensieri, con lo sguardo perso nel vuoto, a trattenere lacrime che solo lontano dalle telecamere — per chi davvero è casa — si è concesso di lasciare andare.
Perciò che fare, se non un inchino a Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, che grandi si sono rivelati nella sconfitta come nella vittoria. Che, se questo è il futuro che ci attende, allora non resta che aspettare con trepidazione. E non tanto per scoprire chi entrerà nella leggenda, quanto per goderci un tennis che, nel suo essere giovane e speculare, leggendario già lo è. Che nel suo essere aggressivo è anche pacato, grazie a una ricetta senza nome, fatta del solo incontro tra due giocatori che, ai poli opposti di una rete, sanno vicendevolmente tirare fuori il meglio di sé. Sintesi moderna di un tennis che “ha inventato il diavolo”. Parola di Adriano Panatta.